«Purtroppo nelle carceri la disponibilità del personale sanitario è particolarmente ridotta perché le carceri non vengono ritenute luoghi in cui impegnare e attivare risorse, ingiustamente. Gli operatori sanitari devono individuare l’intervento più adeguato e coerente alla situazione clinica. Laddove la situazione in carcere non è così allarmante l’attivazione della catena di intervento è purtroppo meno celere. Quindi l’attivazione di due psicologhe con colloqui frequenti era non appropriata». Sono queste le parole con le quali lo psichiatra forense Elvezio Pirfo, nominato dalla Corte d’Assise di Milano, ha commentato il lavoro svolto dalle psicologhe del carcere in cui è detenuta Alessia Pifferi, la donna che ha lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi lasciandola sola per sei giorni. Secondo le psicologhe di San Vittore, Pifferi avrebbe un Qi pari a 40, quello di una bambina di 7 anni, risultando perciò incapace di comprendere le proprie azioni. Una tesi che ribalta quella della procura, rappresentata dal pm Francesco De Tommasi, che ha quindi deciso di indagare le due psicologhe e l’avvocata di Pifferi, Alessia Pontenani, con l’accusa di aver confezionato un documento falso. Una vicenda spinosa, che ha spinto l’avvocatura milanese a protestare, e che sembra destinata ad allargarsi: stando a quanto ha lasciato intendere il pm in aula, infatti, a confezionare quella perizia sarebbero state più persone, che avrebbero imboccato Pifferi per farla apparire disturbata. L’annuncio di De Tommasi, di fatto, è apparso come un’anticipazione della requisitoria. Non del processo in corso, che si concluderà prima dell’estate, ma di quello ancora nemmeno imbastito, ovvero l’indagine parallela che ha spinto la pm Rosaria Stagnaro, tenuta all’oscuro del nuovo fascicolo, ad abbandonare il processo.

La relazione di Pirfo

Le parole di Pirfo sono un pugno nello stomaco, per un motivo semplice: la “colpa” delle psicologhe indagate, di fatto, è stata quella di aver agito stando dalla parte della detenuta. Una scelta personale? Non si direbbe, ad ascoltare lo psichiatra: «Le psicologhe che hanno lavorato e riportato i risultati nel diario clinico sono dipendenti del dipartimento di Salute mentale e agiscono in funzione degli obiettivi di quel dipartimento - ha sottolineato -, ovvero riabilitare la salute mentale del detenuto. Dobbiamo guardare a questa attività come svolta tutta dalla parte del detenuto, perché non finalizzata a riportare osservazioni, ma al supporto». Insomma, una questione di priorità.

Ma è il risultato a non convincere Pirfo: dal diario clinico di Pifferi, infatti, non emergerebbe un rischio suicidario, motivo per cui «non c’era una situazione che potesse giustificare un intervento così intensivo come quello a cui abbiamo assistito». Pifferi è arrivata in aula scortata dalla polizia, con gli occhi sbarrati, assalita dai flash dei fotografi. Ed ha ascoltato senza aprire bocca le parole di Pirfo, che ha iniziato la sua analisi partendo da quella che la stessa Pontenani, fuori dall’aula, ha definito una «excusatio non petita»: «Siamo di fronte ad una situazione complessa, visto che c’è una spettacolarizzazione mediatica - ha dichiarato lo psichiatra -. Ma la collaborazione serena con i consulenti ha permesso di svolgere un lavoro piano e tranquillo, senza influenze, pressioni o sensazioni che qualcosa da fuori potesse influenzare il lavoro».

Pirfo è partito dalla contestazione del test di Wais, usato dalle psicologhe in carcere: «Un test psicodiagnostico utile per confermare disabilità cognitiva» e a suo avviso «non appropriato» e «parziale», mancando «l’analisi qualitativa» delle risposte. Ma in assenza dei video delle sedute, è impossibile affermare che la donna sia stata «suggestionata», come crede invece il pm.

«Pifferi è una persona che si sente e si è vissuta come perennemente inadeguata», una persona «incompiuta», ha spiegato Pirfo. E la donna ha anche raccontato di una violenza sessuale subita a 10 anni e di una famiglia che l’avrebbe messa da parte. «È sempre andata alla ricerca di un maschile protettivo che riempisse questa difficoltà identitaria», ha evidenziato lo psichiatra. Ma a questa «incompiutezza identitaria» si contrapporrebbe una «capacità di resilienza, perché non ha mai smesso di cercare una collocazione nel mondo». Tra l’essere donna o madre, ha spiegato il perito, Pifferi ha scelto di essere donna, vivendo la maternità forse «come un obbligo, come qualcosa che può capitare, non come qualcosa che gratifica e in qualche modo rende compiuto l’essere». Per Pirfo, insomma, la capacità intellettiva di Pifferi è «nella normalità» e pur manifestando tendenze persecutorie non ci sarebbero «deliri paranoici». Ci sono tratti depressivi, una «mancanza di capacità empatica» e una forma di «dipendenza», ma si tratta di elementi psicopatologici che però «non raggiungono - a suo dire - quel livello di qualità clinica necessario per diagnosticare un disturbo di personalità».

Insomma, Pifferi «era capace di intendere e di volere all’epoca dei fatti». Una tesi che la donna ha respinto con forza, per bocca del suo avvocato. «Avrebbe voluto dire che vuole che si sappia che non voleva uccidere sua figlia - ha riferito Pontenani -. Lo dirà appena sarà possibile».

Lo scontro a distanza tra difesa e accusa

Pontentani, in apertura di udienza, ha chiesto un rinvio dell’esame di Pirfo, dato che il materiale allegato alla perizia è giunto alla difesa solo giovedì, dunque non nei tempi previsti per legge. Il presidente Ilio Mannucci Pacini ha deciso di ascoltare la relazione dello psichiatra, chiedendo poi al pm un parere sulla richiesta avanzata dalla difesa. E la sua risposta, di fatto, è stata annunciare il possesso di prove relative all’altro fascicolo, quello di un’indagine ancora nemmeno chiusa.

Per De Tommasi, la richiesta di rinvio avrebbe natura «dilatoria»: «È stato fatto tutto quello che bisognava fare - ha dichiarato -. Se la finalità è insistere sulla validità di quella nota relazione che è entrata nel fascicolo del giudizio, allora io vi preannuncio che dimostrerò e sarò in grado di fornirvi, nero su bianco, la prova che l’imputata ha reso nei colloqui che ha tenuto delle affermazioni che sono state precostituite, imbeccate da altri. Vi fornirò la prova che la presunta violenza sessuale subita quando era minore è assolutamente falsa e che questo racconto è il frutto di un suggerimento ben preciso. Vi dimostrerò che quella relazione solo apparentemente è stata sottoscritta dalle due psicologhe, che questi test sono stati somministrati da una delle due psicologhe insieme ad un altro che non compare. E quella relazione di sintesi è stata redatta da una psicologa che non compare». Una requisitoria anticipata, appunto, interrotta dal presidente. «Con i se non si esprimono pareri», ha affermato Mannucci Pacini. Che ha poi accolto la richiesta di Pontenani, rinviando tutto al 15 marzo.

La reazione di Pontenani

«Se qualcuno ha imbeccato Pifferi io non ne so niente - ha commentato Pontenani -. Penso però che questo non abbia nulla a che fare con questo processo». E in merito alle violenze subite da bambina, che il pm e la famiglia di Pifferi dicono essere false, l’avvocato è certo: «Vi assicuro che queste cose sono vere e se loro fossero sinceri dovrebbero ripensare a quello che dicono - ha sottolineato -. Io sono tranquillissima, ho la coscienza a posto e credo l’abbiano anche le psicologhe. Per 120 pagine la relazione diagnostica di Pirfo delinea un quadro tragico. Nelle ultime pagine, però, la signora diventa incredibilmente sana. Questo mi lascia un po’ basita».

Come il fatto che «oggi Pirfo ha detto che le psicologhe hanno lavorato più del dovuto. E che in base alle difficoltà e carenze di strumenti del carcere di San Vittore loro si sono dedicate troppo a questa persona. Quindi adesso il difetto di due psicologhe non è stato non lavorare, ma lavorare troppo. Siamo all’assurdo». La sentenza è scontata? «Assolutamente no, qui non c’è niente di scontato».

La solidarietà degli avvocati milanesi

«Come ordine degli avvocati - ha dichiarato al termine dell’udienza Nino La Lumia, presidente del Coa - abbiamo preso posizione insieme alla Camera penale perché siamo chiamati a garantire e rappresentare ai cittadini che esiste una cultura del giusto processo, della parità delle parti. Quando vediamo anomalie o criticità che possano alterare questo processo siamo chiamati a intervenire. Questo - ha concluso La Lumia - perché i processi si fanno nelle aule e non fuori. Siamo pronti a vigilare ovviamente anche sui nostri colleghi, la deontologia va rispettata a 360 gradi».

La protesta della Camera penale

«In occasione dell’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria proclamata a tutela del diritto di difesa che riteniamo gravemente leso nel processo a carico di Alessia Pifferi, abbiamo voluto aprire un confronto a viso aperto tra avvocatura e magistratura milanese su questioni per noi fondamentali, utilizzando gli strumenti che noi prediligiamo - quali il dialogo e la dialettica - certi che la discussione e la sensibilizzazione su problematiche comuni della giustizia e del diritto alla difesa possano portare a prevenire il ripetersi di fenomeni che riteniamo molto gravi e lesivi dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo», ha fatto sapere la Camera penale di Milano con una nota. I penalisti hanno proclamato una giornata di astensione proprio a seguito dell’indagine che ha coinvolto la collega, come forma di solidarietà nei confronti della professionista, ma anche a tutela del diritto di difesa.

«Abbiamo, innanzitutto, ritenuto di censurare l’evidente violazione della parità delle parti nel processo. Se, durante la fase delle indagini, lo spazio di intervento garantito alla difesa è fisiologicamente ridotto, una volta a processo, al cittadino, chiamato a rispondere di un reato, deve essere assicurata la massima esplicazione delle prerogative difensive e tale diritto non può subire improprie ingerenze, soprattutto nel momento dell’assunzione della prova. Di alterazioni, invece, ne abbiamo riscontrate numerose nel caso che ha portato a proclamare l’astensione, a partire dall’utilizzo dello strumento d’indagine che rischia di avere valenza intimidatoria nei confronti di difensore, personale sanitario, consulenti e periti e, quindi, in ultima analisi compromettere l’assunzione della prova nel processo e la funzione del giudizio; per non parlare dell’ennesima “fuga di notizie”, per cui gli interessati hanno appreso del procedimento dai giornali ancora prima della formale notifica – continua la nota -. Le nostre doglianze si spostano sulle modalità di iscrizione delle notizie di reato, sui criteri di assegnazione dei procedimenti e, infine, sulle modalità con cui sono state messe in discussione, nell’ambito dell’indagine, le attività del personale sanitario (e non solo) che opera all’interno degli istituti penitenziari e che riteniamo debba essere libero di poter svolgere i propri compiti, ancor più necessari e insostituibili in un momento di eccezionale sovraffollamento carcerario, concausa del numero straordinario di suicidi a cui assistiamo dall’inizio dell’anno».

La procuratrice generale Francesca Nanni ha già dichiarato che eserciterà il suo potere di vigilanza e il procuratore Marcello Viola ha manifestato ampia disponibilità ai fini della soluzione dei problemi concreti.

«Tuttavia non possiamo che insistere nelle nostre richieste, chiedendo una presa di posizione chiara sui fatti. Ribadiamo che non vogliamo interferire nelle vicende in corso: siamo stati al di fuori dell’aula di udienza proprio perché rispettiamo la sacralità del processo, ma auspichiamo un intervento al fine di verificare eventuali violazioni, anche di carattere disciplinare, e al fine di porre rimedio, per quanto possibile, al turbamento già creato al processo in corso – sottolineano i penalisti -. L’assemblea aperta odierna ci porta a soffermarci non solo su un caso di particolare gravità quale quello del processo Pifferi, ma ci fornisce l’occasione per sottolineare tutti quei casi di disparità e talvolta svilimento della funzione difensiva che gli avvocati penalisti vivono quotidianamente e che non possiamo più tollerare. Auspichiamo anche che il confronto possa costituire una opportunità per evitare il ripetersi di situazioni analoghe, per riportare equilibrio nella ordinaria attività giurisdizionale, che vede l’avvocato come parte fondamentale, e per riscoprire l’importanza e la centralità del processo per tutte le sue parti».