«Ormai ci sono abituato…». Lo dice quasi sorridendo, Mimmo Lucano, che da oggi, secondo il Tribunale di Locri, dovrà limitarsi a fare l’europarlamentare, perché il sindaco di Riace non lo può fare più. Il tutto in base ad una interpretazione della Legge Severino in virtù della quale non importa che il giudice penale abbia escluso l’abuso di potere e non ritenuto opportune le pene accessorie: la condanna a 18 mesi, pena sospesa, nel processo Xenia (che lo scagionò da tutte le accuse più infamanti) per un falso in una determina - rimasta un semplice foglio di carta senza alcun effetto pratico sulle casse dello Stato - vale la decadenza dalla carica di primo cittadino. Per «valorizzare al massimo grado la “disciplina” e l’”onore”», sulla base dell’interpretazione che la Corte costituzionale dà della norma.

La sentenza - gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Saitta stanno già lavorando al ricorso - è lapidaria: «La condotta criminosa che ha portato alla condanna definitiva del Lucano, ad avviso del Collegio, comportava ictu oculi l’abuso dei poteri certificatori connessi alla sua posizione di pubblico ufficiale, e il mero riferimento all’articolo 479 c.p. è sufficiente ad apportarne adeguata contestazione, poiché il reato ivi descritto concerne la condotta del pubblico ufficiale». E Lucano, appunto, è stato condannato per avere in qualità di sindaco, «attestato falsamente di aver effettuato i controlli sui rendiconti propedeutici all’erogazione dei finanziamenti relativi al rimborso dei costi di gestione dei progetti Cas (essendo stato assolto in relazione ai fatti contestati per gli altri) asseverandoli, dunque, pur in assenza dei presupposti». Rimborsi, per la cronaca, mai ricevuti, a fronte di spese effettivamente fatte per l’accoglienza.

Per il collegio, «si è così verificata la causa di decadenza». E per quanto «persuasive», le argomentazioni della difesa, si può concludere, secondo il Tribunale, per la considerazione opposta: cioè che quell’abuso ci sia stato.

L’articolo 10 lettera d) del decreto Lgs 235/ 2012 stabilisce che un sindaco decade se condannato definitivamente a una pena superiore a sei mesi per delitti commessi con abuso di potere o violazione dei doveri pubblici. Come spiegato dai due difensori, però, per applicare la decadenza è necessaria la presenza congiunta di due requisiti: entità della condanna e condotta criminosa. Tuttavia, l’accertamento della condotta non spetta all’organo amministrativo, ma solo al giudice penale, come ribadito dal parere del ministero dell’Interno del 2020. Nel caso di Mimmo Lucano, né la Corte di Appello né la Cassazione hanno menzionato l’abuso di potere, e la sentenza d’appello ha anche annullato la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Il che significherebbe che i giudici hanno escluso la condotta necessaria per applicare la Severino. Interpellato da Il Dubbio, Lucano - che proprio ieri stava ripristinando la scritta “Città dell’accoglienza” eliminata dal suo predecessore - dice di voler andare avanti e di considerare la questione politica, una sua antica battaglia con il Viminale.

Chiaro il commento dell’avvocato Daqua, secondo qui il Tribunale sarebbe andato oltre il proprio compito: «Rispettiamo la sentenza emessa dal Tribunale Civile di Locri, così come abbiamo rispettato quelle emessa dalla sezione penale del medesimo Tribunale che aveva condannato Lucano ad oltre 13 anni di reclusione – ha evidenziato il legale -. Come in quel caso, anche ora riteniamo che la decisione sia ingiusta per questo presenteremo gravame nelle forme e nei termini di legge. Oggetto del ricorso non era l’esistenza o meno del reato di falso ideologico, ma se detto reato sia stato commesso, o meno, con “abuso di potere o in violazione dei doveri inerenti alle funzioni”, valutazione che compete solo al giudice penale non potendo, il giudice della decadenza, sostituirsi ad esso. Non è tecnicamente condivisibile – ha aggiunto Daqua - l’assunto del Tribunale secondo cui l’art. 479 c.p. contiene in se detta condotta. Se così fosse la legge Severino avrebbe inserito detto articolo tra quelli espressamente collegati alla decadenza».

Inoltre, «la Corte di Appello, proprio perché aveva esclusa detta condotta, ha ritenuto esistente il reato di cui all’articolo 479 c.p. ma non ha applicato le sanzione di cui dell’art. 31 cod. pen. secondo il quale ogni condanna per delitti commessi con l'abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o ad un pubblico servizio importa l'interdizione temporanea dai pubblici uffici. Interdizione, esclusa dalla corte di appello a comprova, quindi, che la condanna subita non è legata ad alcun abuso di potere voluto dalla legge Severino per la dichiarazione di decadenza. Ed il tribunale, consapevole di ciò, ha “superato” l’eccezione entrando nel merito ritenendo “un errore” la non applicazione del citato art. 31 c.p. L’operazione ermeneutica – ha concluso – oltre ad essere errata non è ammessa dalla legge altrimenti, anche la difesa, avrebbe potuto entrare nel merito della sentenza del giudice penale contestando l’erroneità della condanna».