Giorgia Meloni aveva cercato di farlo capire in modo chiaro, ma evidentemente il messaggio non è arrivato ai suoi destinatari: quando la riforma della giustizia affronta dei tornanti decisivi, l'imperativo è quello di evitare polemiche autolesionistiche con le toghe. Soprattutto se non c’è una sentenza a giustificare toni esasperati. Quindi evitare scontri inutili e non offrire pretesti a chi aspetta al varco la separazione delle carriere per farla deragliare.

Il caso esploso nei giorni scorsi, con il Massimario della Cassazione che ha espresso rilievi critici sul decreto sicurezza e sull’accordo con l’Albania, è emblematico. Si tratta, com’è noto, di valutazioni prive di valore giuridico vincolante. Un parere tecnico, formulato da sei magistrati della Corte, che di per sé non produce effetti né sulla giurisprudenza né sulla politica. Eppure è bastato a innescare reazioni scomposte da parte di due pedine centrali del governo: il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ha parlato – riferendosi da suo punto di vista al dl sicurezza - di «impostazione ideologica», e il Guardasigilli Carlo Nordio, che ha evocato un «pregiudizio», anch'esso ideologico. Il problema, dal punto di vista di Meloni, non è tanto ciò che ha detto il Massimario, quanto il fatto che a legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica siano stati gli stessi ministri, trasformando un documento interno in una grana politica. Secondo alcuni retroscena la premier avrebbe espresso “fastidio” per le reazioni eccessive e non coordinate, e che il richiamo alla sobrietà sia arrivato direttamente ai diretti interessati. Un’operazione chirurgica, ma necessaria: in ballo non c’è solo la riforma costituzionale della separazione delle carriere, ma l’intera architettura del rapporto tra politica e giustizia.

In questo contesto, anche gli eccessi verbali di Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, non sono più tollerabili. Dopo essersi lanciato in paralleli tra magistrati e partigiani delle Brigate Garibaldi, Delmastro è finito più volte nel mirino, senza che Palazzo Chigi lo difendesse apertamente. Anzi, la sensazione che trapela è che chi non si allinea alle direttive verrà, se non scaricato, quantomeno isolato. La prudenza di Meloni non è dettata da improvvisa reverenza verso le toghe, ma da un ragionamento politico. La memoria del disastro referendario del 2006 – quando Berlusconi fu sonoramente sconfitto sul suo pacchetto di riforme costituzionali – e quella del naufragio renziano del 2016 sono ancora vive. Due leader forti, entrambi convinti che il consenso popolare potesse piegare la magistratura, i sindacati e altri corpi (nel caso di Berlusconi vi era anche l'ostilità del Colle) sconfitti nel momento in cui hanno trasformato il referendum su una riforma in un referendum su se stessi. Meloni vuole evitare lo stesso errore. Il referendum sulla separazione delle carriere, che con ogni probabilità si terrà nel 2026, dovrà essere costruito con attenzione, evitando forzature e conflitti istituzionali. L’obiettivo è non alienare il sostegno dei moderati, che in una consultazione che non necessita di quorum possono risultare decisivi. Ma soprattutto non aprire una faglia con il Quirinale, che sull’indipendenza della magistratura ha sempre mantenuto una posizione di rigidità costituzionale.

Va da sé che Mattarella auspichi toni bassi e nessuna escalation che possa compromettere l’equilibrio tra poteri dello Stato. È anche per questo che Meloni ha scelto di non commentare pubblicamente le parole del Massimario, lasciando che fossero i suoi a bruciarsi, per poi intervenire con un richiamo all'ordine. La polemica rischia ora di diventare un boomerang per chi, nel governo, ha intenzione di cavalcare l’antagonismo con le toghe. Il parere della Cassazione, ricordano giuristi e tecnici, non ha alcun valore vincolante e non comporta modifiche automatiche al decreto. Ma la reazione del Viminale e di via Arenula non ha certamente contribuito ad allontanare le tossine dal dibattito a Palazzo Madama sulla riforma. Nella maggioranza c’è chi, come il vicepresidente del Senato Francesco Paolo Sisto, cerca di minimizzare: «Quel parere è solo un orientamento, non una sentenza della Cassazione», ha detto al Corriere, respingendo l’idea che il decreto sicurezza sia sotto scacco. Ma è chiaro che l’incidente ha lasciato il segno. Allo stesso modo, il portavoce azzurro Raffaele Nevi ha respinto in modo ruvido la proposta leghista di un ulteriore decreto sicurezza, affermando che «non si può fare una norma ogni giorno». Nell'idea della premier e dei suoi più stretti collaboratori, il tempo delle improvvisazioni dovrebbe terminare, e chi continuerà a sbagliare stavolta pagherà il conto.