Se si volesse davvero misurare lo stato di salute della giustizia in Italia bisognerebbe guardare gli ostacoli che incontrano gli avvocati nel fare il proprio lavoro. E pensare all’insegnamento di Piero Calamandrei: «Dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia».

Il caso che ha coinvolto Alessia Pontenani, difensore di Alessia Pifferi, la madre a processo per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana, di soli 18 mesi, è solo l’ultimo cortocircuito giudiziario che impatta sul diritto di difesa. Ed è per questo motivo che il Consiglio direttivo della Camera penale di Milano ha deliberato l’astensione dalle udienze e dall’attività in materia penale nel distretto di Milano per il prossimo 4 marzo, giorno in cui è prevista la prossima udienza per il caso Pifferi.

Pontenani, come noto, è stata iscritta sul registro degli indagati dal pm che sta celebrando il processo Pifferi - Francesco De Tommasi - insieme a due psicologhe del carcere di San Vittore, ree di aver certificato che il Qi di Pifferi è pari a 40. Per questo sono accusate di falso - in concorso con Pontenani, che all’epoca del test non era stata nemmeno nominata - e favoreggiamento. La scelta di De Tommasi ha spinto la coassegnataria del fascicolo su Pifferi, Rosaria Stagnaro, all’oscuro di tutto, a lasciare il processo. E ha complicato la posizione di Pontenani, che ora potrebbe essere dichiarata incompatibile. Il tutto premendo il piede sull’acceleratore rispetto alle procedure normalmente previste in queste situazioni: il pm avrebbe potuto attendere la fine del processo e trasmettere gli atti, ma così non è stato.

La Camera penale, oggi, interviene con un gesto simbolico, a difesa non solo della collega, ma anche del diritto di difesa in generale, della serenità del processo e dell’imputato che lo subisce. «Il diritto di difesa e di esercizio del diritto alla prova nel processo sono stati pericolosamente intaccati dalla condotta del pubblico ministero il quale, anziché contestare la prova nel processo, ha usato impropriamente il suo potere investigativo, rischiando di intimidire difensore, personale sanitario, consulenti, periti e, in ultima analisi, i giudici che, ne siamo certi, non consentiranno ingerenze - afferma la Camera penale guidata da Valentina Alberta -. Tuttavia, crediamo che debba esserci una compatta reazione contro condotte al di fuori delle regole del sistema processuale ed invitiamo i dirigenti degli uffici giudiziari a confrontarci con gli avvocati penalisti sui temi posti nella delibera». Nella delibera vengono evidenziate alcune circostanze, partire dall’avviso di garanzia “a mezzo stampa”.

Il decreto di perquisizione nei confronti delle psicologhe coindagate, infatti, è stato diffuso tra i giornalisti prima della notifica all’avvocata, «avvenuta diverse ore dopo (insieme ad una inusuale memoria del pubblico ministero a se stesso, che è stata oggetto di successiva “narrazione” giornalistica) con modalità del tutto eccentriche (all’interno del Palazzo di Giustizia ove l’avvocato Pontenani si trovava per lo svolgimento della propria attività professionale ad opera della polizia penitenziaria delegata alle indagini)». E in questo caso, il segreto istruttorio è stato brutalmente violato, assieme alla presunzione d’innocenza, creando i presupposti per il processo mediatico.

«La diffusione e pubblicizzazione di atti dell’indagine mira, come denunciamo ormai da tempo, a rafforzare impropriamente la fondatezza dell’ipotesi investigativa e, nel caso di specie, spiega, in modo dirompente, i suoi effetti anche sul processo in corso», continuano i penalisti, secondo cui l’azione del pm, «per i tempi e le modalità che l’hanno caratterizzata, incide obiettivamente sulla formazione di una prova nel dibattimento, interferendo con l’effettuazione di una perizia sulla capacità dell’imputata e ponendo in discussione gli stessi equilibri del processo, ove il confronto paritario tra le parti rappresenta lo strumento per l’accertamento dei fatti».

Ma non solo: per dimostrare la propria tesi, il pm ha convocato come persone informate sui fatti i precedenti difensori di Pifferi, incidendo così «sul delicatissimo equilibrio che governa il rapporto tra assistito e difensore, che ha l'obbligo di mantenere il segreto su quanto appreso in costanza di mandato, anche se dismesso». Di mezzo, però, c’è anche la distorsione della narrazione che arriva dall’esterno del Tribunale, dove l’accertamento della capacità di stare a processo viene stigmatizzato come tentativo di sottrarsi al processo stesso. E a ciò si aggiungono i timori del personale sanitario all’interno delle carceri, messo nero su bianco in una lettera indirizzata alla procura generale, nella quale viene fortemente criticata la “sfilata” in carcere a cui una delle indagate è stata costretta per le perquisizioni.

«In un’epoca di sovraffollamento (a San Vittore all’11.01 il dato è del 233,19%) e di suicidi quasi quotidiani in carcere, non è accettabile che le modalità dell’attività di prevenzione dell’autolesionismo attraverso l’erogazione di prestazioni di assistenza psicologica vengano sindacate addirittura attraverso il ricorso allo strumento penale», sottolinea ancora la Camera penale. Secondo cui «il complessivo comportamento tenuto dalla procura altera quello che dovrebbe essere l’intangibile equilibrio tra accusa e difesa nell’esercizio del giusto processo. Da “armi pari” il passo ad “armi incrociate” (da una parte verso l’altra) è tanto breve quanto pericoloso: tale passaggio non avverrà mai con il silenzio o l’accondiscendenza della Camera Penale di Milano».