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CARLO NORDIO MINISTRO GIUSTIZIA
“Crucifige Nordio!”, dicono. “Hic manebimus optime”, risponde lui. E sembra di essere nel corso di una messa cantata, piuttosto che a un corso di diritto giustinianeo. Invece siamo di nuovo nel pieno del “caso Almasri”, il generale libico arrestato e poi espulso nel gennaio scorso. E’ solo apparenza, in realtà. Ma c’è poco da scherzare, o da alludere. La realtà è che il boccone grosso della politica italiana, quello difficile da mandar giù, è un altro. Ed è la riforma del secolo, quella che dovrà ridare dignità e autonomia al giudice e portare al suo ruolo di semplice avvocato dell’accusa il pubblico ministero. La separazione delle carriere sta per varcare la seconda delle quattro porte necessarie a norma di Costituzione per arrivare all’approvazione definitiva. Poi saremo nel pieno della campagna elettorale referendaria.
Nel frattempo, se non si può proprio azzoppare la riforma, si può tentare di liberarsi di colui nel cui nome la nuova legge passerà alla storia, il ministro Carlo Nordio. E tutto fa brodo, le truppe sono da tempo allineate. Si va dall’agguerrito sindacato delle toghe fino ai suoi scudieri nelle redazioni e anche ai vertici di partito, dal grillino Giuseppe Conte fino alla neo- grillina Elly Schlein. E’ un tribunale del popolo, ma senza popolo, come spesso lo è chi pretende di giudicare e reprimere nei regimi totalitari. Un sistema feroce, che non disdegna i colpi sotto la cintura. In questo momento sta tentando il tiro al bersaglio proprio mentre c’è una situazione delicata proprio sul “caso Almasri”.
C’è un Tribunale dei Ministri al lavoro, a quanto pare composto da tre giudici di sesso femminile definite come “normali”, di quelle che non scrivono libri e non conducono talk, e neppure vengono premiate perché rispondono al telefono, a qualunque ora, quando chiama il cronista. Neanche particolarmente sindacalizzate, una meraviglia. Vogliamo lasciarle lavorare? Evidentemente no. Perché pare inevitabile che la storia si debba fare con la notizia che “spunta” e quel che “dalle carte emergerebbe”. Carte riservate, ovviamente, rese pubbliche in violazione del segreto investigativo. Reato su cui nessuna procura, nonostante le rassicurazioni, mai ha indagato. Il maledetto triangolo che spesso parte da un procuratore fellone ( o da chi ne fa le veci nello stesso palazzo) per planare sulla carta o nell’aere, colpire il bersaglio e affidarlo alla voracità politica di chi ha il compito di chiederne le dimissioni.
Il “caso Almasri” ha, rispetto ad altre vicende di ordinaria violazione del segreto investigativo, almeno due aggravanti. La prima è che va a cozzare con delicatissime questioni di sicurezza nazionale e oltre confine. Che, nell’attuale quadro geopolitico, dovrebbe indurre a non scherzare con il fuoco.
La seconda è che il punto di partenza, dentro o fuori dalle carte del processo, è uscito dalla bocca di un ex presidente del consiglio, Matteo Renzi. Il quale si è assunto il ruolo delle peggiori tradizioni del finto giornalismo d’inchiesta e ha cominciato a lanciare sospetti, poi racchiusi in un’interrogazione parlamentare, sulla dinamica di quei due- tre giorni dello scorso gennaio. Quando il generale libico Osama Almasri, dopo aver tranquillamente passeggiato in diversi Paesi dell’Unione Europea, era stato arrestato in Italia per gravi reati contestati dalla Corte Penale Internazionale, poi scarcerato e infine espulso e rimandato in Libia.
In quella parte del Paese dove le norme e le regole di convivenza civile hanno aspetti “particolari”, da trattare con attenzione e diplomazia. Il ministro guardasigilli ha già chiarito per due volte al Parlamento la regolarità del comportamento suo e del governo italiano. Sul Dubbio di ieri, Errico Novi ha citato la mail che smentisce le tesi complottistiche degli “scoop” di Corriere della sera e
Repubblica, che hanno sviluppato, con abbondanza di notizie che “spuntano” da carte segrete, la tesi di Matteo Renzi. Tesi che hanno avuto come effetto inevitabile, nella solita triangolazione, la richiesta di dimissioni del ministro da parte dei partiti di opposizione.
Ma questi partiti, ce lo chiediamo per l’ennesima volta, e parliamo di forze politiche che sono state al governo del Paese, sono ancora disponibili, pur di continuare a svolgere il ruolo di reggicoda del sindacato delle toghe, a mettere in discussione questioni che attengono alla sicurezza nazionale? E’ così urgente impallinare un ministro di un governo che gode tuttora di ampio consenso elettorale, solo perché è promotore di una riforma che non piace ai magistrati? Non diteci, cari Schlein o Conte o Renzi, che volete cacciare Carlo Nordio perché secondo voi avrebbe imbrogliato le carte su notizie ricevute di domenica piuttosto che di lunedi.
Sapete benissimo, proprio perché avete avuto esperienze di governo, che la ragion di Stato, soprattutto quando si ha a che fare con governi poco affidabili ai confini del nostro Paese, a volte ha dei prezzi da pagare. Se insistente in modo così pervicace a indicare, sempre e comunque, proprio quel bersaglio, il ministro guardasigilli, questa è la dimostrazione del fatto che la posta in gioco è un’altra. E si chiama Separazione delle carriere. Volete uccidere Nordio per eliminare la riforma. Ma siete sicuri che sia un calcolo vincente?