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Da nessuna parte - né nel verbale d’udienza, né nella memoria depositata in aula – viene attribuita alla pm Valentina Salvi una condotta “criminosa” da parte degli avvocati Rossella Ognibene e Oliviero Mazza. Condotta “criminosa” di cui si parla, invece, nella lettera con la quale il procuratore di Reggio Emilia Gaetano Paci ha trasmesso gli atti alla procura di Ancona per procedere per calunnia contro i difensori della principale imputata del processo “Angeli e Demoni”, rei, secondo i pm, di aver accusato Salvi di rivelazione di segreto e abuso d’ufficio.
Paci, nella sua lettera, ha infatti attribuito ai due avvocati l’utilizzo di tale termine come fosse una “accusa” direttamente affermata, tuttavia senza dare conto del fatto che – invece – fosse stato posto in essere un ragionamento ipotetico connotato da ipotesi condizionali. Il tema sostenuto dai difensori era la presunta incompatibilità delle consulenti della pm ad assumere il ruolo di testimoni: secondo i due avvocati, le stesse erano da qualificarsi quali ausiliarie del pm, avendo partecipato prima della loro nomina alle sit di alcuni minori. Un concetto ben compreso dal Collegio del Tribunale di Reggio Emilia, che nel respingere l’eccezione aveva evidenziato, nella sua ordinanza, proprio lo stesso paradosso: «Le consulenti non potrebbero non essere ritenute ausiliarie, in quanto altrimenti si tratterebbe di soggetti privati che sarebbero venute a conoscenza senza alcun titolo di atti segreti di un procedimento penale, configurandosi, pertanto, a loro carico il reato di cui all’art. 326 c.p. o quello di cui all’art. 323 c.p. e conseguente necessità di assumere la loro testimonianza ai sensi dell’art. 210 c.p.p.». Da nessuna parte e in nessun momento, dunque, l’accusa di condotta criminosa a Salvi. Accusa che, secondo Paci, sarebbe diventata di dominio pubblico e che, però, non compare in nessuna delle cronache giornalistiche di quella udienza. Anzi, la stessa eccezione giuridica, formulata con ragionamento “per assurdo”, venne ignorata dalla stampa, ad eccezione del Dubbio, che però non riportò mai la parola “criminosa”.
A ciò si aggiungono la tempistica e il metodo scelti per la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini: via pec tramite il difensore d’ufficio proprio durante le arringhe. Nulla di strano, però, per la sezione dell’Anm dell’Emilia Romagna: «Nessuna iniziativa improvvida o addirittura intimidatoria dell’ufficio di procura reggiano, nessun vulnus all’esercizio del diritto di difesa, bensì mera applicazione della legge». E nemmeno «nessuna denuncia»: la procura di Reggio Emilia si sarebbe limitata a trasmettere ad Ancona «fatti di possibile rilevanza penale accaduti nel corso del processo», fatti che l’autorità Giudiziaria di Ancona «ha provvisoriamente ritenuto che in quel processo siano state rivolte calunnie ai danni del pm di udienza».
Ma la dura replica all’Anm, mentre da nord a sud i Coa e le Camere penali locali manifestano solidarietà ai due avvocati, non si è fatta attendere. «Imbarazzante» affermare che non ci sia stata alcuna denuncia, ha commentato Nicola Canestrini, avvocato di Ognibene insieme a Giovanni Tarquini e membro dell’Osservatorio degli avvocati minacciati dell’Ucpi: il procuratore Paci, ha ricordato Canestrini, ha trasmesso una notizia di reato alla procura di Ancona ex articolo 11 del cpp - come dimostra la stessa lettera di trasmissione -, anche se la scelta di iscrivere «a modello 45», ovvero per fatti non costituenti reato, potrebbe denotare una certa perplessità anche da parte sua. Una sorta di cortocircuito logico. «Cambiare l’etichetta o ricorrere ad iscrizioni di comodo (?) non cambia o altera la sostanza giuridica e fattuale dell’atto», ha aggiunto.
Dura anche la replica dell’Ucpi, che sin da subito aveva denunciato la creazione di un nuovo reato, il “delitto di difesa”. Secondo l’Anm, la vicenda si sarebbe svolta “rite et recte”, ovvero «conforme al rito e rettamente», formula ereditata dal linguaggio dell’Inquisizione. Se ad Ancona non è stata inoltrata nessuna denuncia, afferma l’Ucpi, «non si comprende allora a che titolo gli atti sarebbero stati trasmessi a quella procura, se non in quanto competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p. su reati commessi ai danni dei pubblici ministeri reggiani». Nel comunicato dell’Anm si afferma che la procura di Ancona avrebbe «solo provvisoriamente ritenuto» sussistente il reato di calunnia, un avverbio, continua l’Ucpi, che minimizzerebbe una decisione concreta e potenzialmente dannosa: la procura non ha chiesto l’archiviazione, dunque ritenendo che le accuse siano abbastanza solide da reggere in giudizio. «Visto che in ogni occasione si parla di “cultura della giurisdizione” - continua la nota -, ci si chiede se questo modo di intendere i rapporti processuali fra le parti ed il rispetto dell’esercizio del diritto di difesa, da parte del sindacato dei magistrati, appartenga a quel patrimonio culturale del quale si invoca la tutela».
Insomma, quella dell’Anm sarebbe stata una «difesa corporativa», col rischio di trasformare «l’inviolabile diritto di difesa» in «una cassetta degli attrezzi sottoposta all’illiberale, scomposto e inquisitorio scrutinio» proprio da parte di chi dovrebbe esserne il fisiologico destinatario: i magistrati. Valori e principi — conclude l’Unione — che la magistratura dovrebbe avere a cuore, «nel nome della libertà di tutti i cittadini e dello stato di diritto».