Il procuratore Karim Khan condannato a 15 anni da un tribunale russo per il mandato di arresto a Vladimir Putin, decine di magistrati della sua squadra sottoposti a sanzioni dell’amministrazione Trump per un analogo mandato nei confronti di Benjamin Netanyahu (per l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant), Londra che da tempo minaccia di tagliare i fondi e uscire dallo Statuto di Roma sempre in difesa del premier israeliano: il quadro è flagrante.

La Corte penale internazionale è sotto attacco da potenze che spesso si fronteggiano, ma che trovano una convergenza paradossale quando la giustizia internazionale tocca i propri interessi strategici e quelli dei rispettivi alleati. In tal senso l’azione degli Stati Uniti si sta rivelando particolarmente brutale, gli effetti concreti delle sanzioni pesantissimi: conti bancari bloccati, carte di credito sospese, servizi digitali interrotti, viaggi delle famiglie impossibilitati.

Magistrati e funzionari accusati di aver indagato sui crimini dell’IDF nella Striscia di Gaza (ma anche su quelli degli agenti Cia in Afghanistan) si ritrovano nella lista nera dei nemici dell’America, alla stregua dei terroristi di al Qaeda, raggiunti dalle stesse restrizioni. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha minacciato direttamente Kahn di «conseguenze durissime» se torcerà un capello all’amico Bibi. Intanto Microsoft, guidata dal “progressista” Bill Gates, cancella l’account email di Khan, Amazon sospende servizi digitali ai magistrati sanzionati, e perfino acquisti apparentemente banali come un e- book diventano impossibili. Il diritto penale internazionale, in questo contesto, non esercita più alcun potere reale: diventa un orpello, una lista di suggerimenti se non addirittura un avversario da abbattere.

Quando la Corte processò i responsabili del genocidio in Ruanda o dei massacri in Sudan, la comunità internazionale applaudiva convinta e ne celebrava il ruolo, senza riserve. Ma quei crimini atroci avvenivano in paesi, laterali, periferici e schierarsi con la giustizia non costava nulla. Quando si tratta di Stati o leader potenti, quel consenso scompare.

La Russia coerente con il suo stile ha scelto la via diretta: la condanna simbolica di Khan a trent’anni di prigione non mira alla pena in sé, ma a inviare un messaggio politico. Chi osa muovere accuse contro la leadership di Putin e l’invasione dell’Ucraina è considerato nemico dello Stato. Non è un processo giudiziario convenzionale, ma un’esibizione di potere.

Anche Londra ha agito con decisione per tutelare i suoi rapporti con Tel Aviv seppur in modo più istituzionale, contestando esplicitamente il mandato di cattura contro Netanyahu e minacciando di ritirare i fondi e di uscire dallo Statuto di Roma. Il Guardian cita una conversazione avvenuta del 23 aprile 2024 tra Kahn e un alto funzionario del ministero degli Esteri alla vigilia dei mandati, una misura «sproporzionata» per Downing Street che avrebbe avuto «effetti concreti» sul sostegno del Regno Unito. Kahn racconta che non si trattava di raccomandazioni ma di vere e proprie minacce.

Tre governi diversi reagiscono dunque allo stesso modo: neutralizzare la Corte penale internazionale quando mette le mani nei dossier “che contano” e che disturbano. La Cpi d’altra parte che può fare? Non ha forze proprie, dipende dalla volontà degli Stati per eseguire i suoi mandati e sopravvive grazie alle loro risorse. Ogni volta che prova a esercitare potere effettivo su leader influenti rischia di subire ritorsioni. La sua autonomia definita dallo Statuto nei fatti è fragile se non inesistente: resiste solo finché gli Stati, o meglio i governi, la tollerano.

Nonostante questo scenario complesso, i magistrati dell’Aja continuano a portare avanti i procedimenti, ma con grande fatica e poteri azzerati. In Etiopia, la Corte ha emesso mandati contro membri delle forze filo- governative responsabili di violenze contro civili, la loro esecuzione resta complicata a causa della mancata cooperazione delle autorità locali.

In Myanmar, le indagini sul trattamento della minoranza Rohingya avanzano tra lentezze e resistenze diplomatiche da parte di governi alleati su tutti la Cina, dimostrando anche in quel quadrante come il principio di universalità del diritto penale internazionale si scontri con gli effettivi rapporti di forza. Persino in contesti regionali dove la Corte ha storicamente agito con grande efficacia, come la Repubblica Centrafricana, l’applicazione dei mandati incontra ostacoli legati a conflitti locali, milizie armate e interessi economici internazionali. Khan e i suoi colleghi rifiutano interferenze politiche, provano a tutelare l’indipendenza delle decisioni e, in alcuni casi, cercano vie alternative per garantire che le vittime possano ottenere giustizia, come la cooperazione con tribunali locali o organismi Onu. È questa capacità di adattamento che malgrado tutto permette alla Corte di esercitare una funzione reale. Ma è un sistema fragile, esposto alle rappresaglie di una politica internazionale che ha dimenticato la diplomazia e il diritto per accodarsi alla logica