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Bartolomeo Romano, Professore Ordinario di Diritto penale, Università di Palermo
Lo voglio ribadire con chiarezza, dopo averlo scritto in decine di contributi scientifici, sin dal 1996 (e, da ultimo, nel mio Delitti contro la sfera sessuale della persona, 8a ed., Lefebvre Giuffrè, Milano, 2025): l’art. 609- bis del codice penale è uno degli articoli più infelici del panorama penalistico attuale. Una disposizione che – sia pure in base ad ingenue, ma comprensibili, motivazioni di fondo – ha addirittura peggiorato quanto aveva previsto in materia il codice penale nella sua versione originaria del 1930.
Da un lato, infatti, l’art. 609- bis c. p. ha mantenuto fermi i requisiti della violenza e della minaccia, specchio di una impostazione vetero- maschilista, nel solco della vis grata puellae. Si pensi, infatti, che gli antichi giureconsulti pratici pare esigessero, in colei che si asseriva violentata, quattro esteriorità: le grida contemporanee alla violenza, i capelli disciolti, le vesti scompigliate e il racconto immediato dell’accaduto. E, dall’altro, l’intervento del 1996 ha aumentato i margini di indeterminatezza della disposizione, ricorrendo alla generica nozione di “atti sessuali” e consentendo una diminuzione di pena in presenza di “casi di minor gravità”.
In più, ha unificato in un unico articolo condotte che, nella versione originaria del codice, erano (giustamente) distinte: la violenza carnale e gli atti di libidine violenti. Questo, anzi, rappresenta il punto centrale della riforma del 1996 ( oltre allo spostamento delle relative incriminazioni dall’arcaico titolo IX, dedicato ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, al titolo XII, riguardante i delitti contro la persona; spostamento “tecnicamente” inutile, ma certamente opportuno e condivisibile, pur con talune precisazioni che qui non posso riaffermare): con ciò, sostenevano gli enfatici sostenitori di allora, si sarebbero evitate indagini che avrebbero umiliato la vittima, entrando nella sua sfera più intima e privata.
Peccato, però, che tale affermazione contrasti con i princìpi del processo penale e persino con quelli del diritto penale sostanziale, nonché con quanto prevede lo stesso art. 609- bis c. p.
Sotto il primo profilo, una precisa ricostruzione dell’accaduto deve essere necessariamente perseguita già ai fini della contestazione ed è un accertamento del quale occorre dare adeguato conto (oltre che per il rispetto del principio della correlazione tra accusa e sentenza) ai fini dell’adempimento dell’obbligo di motivazione ( artt. 111, comma 6, Cost. e 125, comma 3, c. p. p.), la cui mancanza è censurabile in Cassazione ( art. 606, lett. e, c. p. p.). Dal punto di vista dei canoni fondamentali del diritto penale, occorre considerare che l’ampia forbice edittale prevista ( da sei a dodici anni di reclusione) impone una delicata commisurazione della pena ex art. 133 c. p., e che comunque possono rilevare eventuali circostanze.
Ma soprattutto, l’ultimo comma dell’art. 609- bis c. p. prevede che «nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente ai due terzi». Dunque, pur con la unificazione legislativa introdotta, occorrono approfondite indagini e l’individuazione di efficaci criteri discretivi, prima indispensabili al fine di distinguere la violenza carnale dagli atti di libidine violenti, ora necessari per valutare l’eventuale minor gravità del fatto, non di rado invocata dagli imputati.
A fronte di questo disastro normativo, da sempre sostengo che sarebbe preferibile uno “spacchettamento” dell’attuale delitto di violenza sessuale, con la creazione di una fattispecie più grave, chiamata stupro, e di una figura meno grave, di abuso sessuale, nella quale fare eventualmente confluire condotte attualmente prive di unitaria considerazione. La proposta sopra riassunta, a mio modo di vedere, consentirebbe di superare due evidenti deficit di determinatezza che caratterizzano l’attuale disposizione: la difficoltà di sapere cosa sono gli “atti sessuali” e quali siano i “casi di minore gravità”, spesso lasciati ad una amplissima valutazione discrezionale della magistratura. Infatti, basterebbe sapere cosa riteniamo essere “stupro” per evitare di diffonderci in oscillazioni relative alla identificazione ( almeno) dei più estremi e riprovevoli atti sessuali; al tempo stesso, la fissazione di un reato più grave eviterebbe le, talvolta assurde e imbarazzanti, identificazioni dei “casi di minore gravità”.
Ho sempre sostenuto, poi, che sarebbe preferibile incentrare il delitto di violenza sessuale sulla mancanza di consenso (o, al limite, sulla presenza del dissenso), e non più sulla necessaria presenza della violenza o della minaccia. A ciò oggi spingono anche la Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013, e le scelte legislative recentemente fatte da altri Paesi europei, quali la Germania e soprattutto la Spagna e la Francia.
Lo scrivo qui ora, ampliando lo spettro dei miei recenti interventi “giornalistici” (ma sono riflessioni riversate da trenta anni in contributi diretti alla comunità scientifica), perché la fortissima convergenza, frutto di una improvvisa accelerazione, che tutte le forze politiche avevano manifestato nella votazione unanime (227 voti favorevoli e nessun voto contrario) intervenuta alla Camera dei Deputati mi aveva suggerito di proporre solo limitate modifiche alla disposizione appena approvata.
Avevo, cioè, sostenuto (da ultimo, ne Il Dubbio del 18 novembre) che per le ipotesi di cui al comma secondo del futuro art. 609- bis c. p. occorresse prevedere un aggravamento di pena “fino a un terzo”, ai sensi dell’art. 64 c. p. Quindi, una pena un po’ meno grave della pena prevista per le ipotesi ancora più gravi di cui all’art. 609- ter c. p. ( ove la pena è, a seconda dei casi, aumentata di un terzo o della metà). E avevo segnalato come permanessero i dubbi sui «casi di minore gravità», di cui al comma terzo dell’art. 609- bis c. p.
Tutto il dibattito di questi giorni, però, si è incentrato sul concetto di consenso, sul quale sono state fatte affermazioni errate ( si è detto che sarebbe un negozio giuridico, mentre è un mero atto giuridico, un permesso), non comprendendo che il consenso deve comunque essere effettivo, contemporaneo alla condotta, che rileva nei limiti entro i quali è concesso, nella misura manifestata e nei confronti dei soggetti ai quali è rivolto. Inoltre, non si è considerato che non è necessario un consenso espresso, poiché è sufficiente il consenso tacito ( cioè, desumibile dal comportamento del titolare del bene: per facta concludentia).
E soprattutto si è, incautamente, sollevato lo spettro dell’inversione dell’onere della prova e delle presunzioni probatorie. Paure diffuse da affermazioni fatte, purtroppo, non solo dall’uomo della strada o dalla casalinga di Voghera, ma da alcuni enfatici sostenitori della riforma, poi, ovviamente, riprese dai suoi detrattori.
Lo sottolineo nuovamente: con la nuova formulazione del delitto, saranno la ( sempre “presunta”) vittima e il pubblico ministero a dover provare la violenza sessuale. E ciò in ossequio: al principio di non colpevolezza di cui all’art. 27 della Costituzione; alla considerazione dell’innocenza dell’imputato, sino alla eventuale sentenza di condanna, scolpita dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; all’introduzione del processo accusatorio, con il Codice Vassalli del 1988; e alla modifica dell’art. 111 della Costituzione, intervenuta nel 1999.
Voglio, però, anche per abbassare i toni, fare una semplice considerazione, che emerge dai dati empirici. Quasi sempre le condotte di violenza sessuale avvengono in assenza di terze persone, di testimoni: sono presenti solo i due protagonisti della vicenda, la presunta vittima e il presunto innocente. Parola contro parola; versione contro versione. Ed allora, se non vogliamo tornare ai “criteri” utilizzati dagli antichi giureconsulti, se non vogliamo pretendere sempre una violenza fisica evidente, il problema centrale, di ricostruzione dell’accaduto, resta sostanzialmente immutato: sia che ci si accontenti di una lata nozione di violenza o minaccia, sia che si preveda un dissenso manifestato, sia che si vada nella direzione della mancanza di consenso.
Dunque, ben vengano eventuali correzioni alla futura disposizione penale, ancora possibili. Ma occorre, sempre e comunque, pretendere un serio ed approfondito accertamento processuale, al quale tutte le parti sono tenute a dare il loro contributo, offrendolo ad un giudice, veramente terzo e imparziale, che non ceda a presunzioni probatorie.


