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Carceri sovraffollate in Italia
Non sono solo numeri, sono corpi. Corpi ammassati, uno sopra l’altro, in spazi pensati per una persona e abitati da tre. Se c’è una cifra che dovete tenere a mente, non è quella fredda dei comunicati stampa ministeriali, ma quella che emerge dalla realtà nuda e cruda dei bracci: 137,86%. È questo il tasso reale di affollamento nelle carceri italiane di metà dicembre. Una percentuale che non racconta solo un “disagio”, ma certifica una tortura di Stato silenziosa, quotidiana, burocratizzata.
Siamo andati a guardare dentro i dati, quelli veri, quelli che il sito sovraffollamentocarcerario.it aggiorna con la costanza di un bollettino di guerra. Parliamo di un progetto curato da Marco Dalla Stella, giornalista specializzato in dati. E la guerra, lì dentro, è contro lo spazio fisico. I posti regolamentari sarebbero 51.276, ma quelli davvero disponibili — perché i muri cadono a pezzi, perché le sezioni chiudono, perché la manutenzione è un miraggio — sono scesi a 46.198. E dentro? Dentro ci sono 63.689 persone. Ci sono oltre 17.000 detenuti di troppo. Diciassettemila uomini e donne che lo Stato ha deciso di chiudere a chiave, ma per i quali non ha preparato un letto.
LA MAPPA DELL’INFERNO
Basta scorrere la dashboard dei dati per capire che l’Italia non è tutta uguale, ma l’emergenza è democratica: colpisce ovunque, senza distinzioni. C’è una mappa che si colora di un rosso sempre più scuro, fino a diventare quasi nero. È lì che la pena smette di essere rieducazione e diventa pura sopravvivenza.
Prendiamo Lucca. Il tasso di affollamento ha toccato il 244%. A Vigevano, casa di reclusione, il tasso è del 243%. Lì, su 236 posti regolamentari, ben 222 risultano “non disponibili”. È un carcere fantasma, una struttura che sulla carta esiste ma nella realtà è inagibile, e quei pochi metri quadri rimasti agibili sono stipati all’inverosimile. E poi c’è il Sud, con Foggia che esplode al 216%, o il Nord produttivo di Brescia Canton Mombello ( 214%), dove il sovraffollamento è una cronaca stanca che si ripete da decenni, immutabile.
Non si tratta di “disagi temporanei”. In ben 72 istituti penitenziari il tasso di affollamento è superiore al 150%. Significa che tre persone vivono nello spazio di due, costantemente, 24 ore su 24. A questo quadro già asfissiante si aggiunge un altro dato che spesso sfugge ai radar della politica mainstream ma che chi vive il carcere conosce bene: la carenza di personale. I dati incrociati mostrano istituti con un sovraffollamento oltre il 120% e una carenza di agenti superiore al 20%. Meno occhi per controllare, meno mani per aprire i cancelli delle attività, meno educatori per costruire un futuro. Il risultato è l’abbandono. Il detenuto è solo, l’agente è solo. E in questa solitudine fermentano la disperazione, l’autolesionismo, il suicidio.
IL GRANDE BLUFF DEL GOVERNO
Di fronte a questa fotografia nitida, indiscutibile, cosa ha fatto la politica? Cosa ha fatto il governo Meloni in questo lungo anno e mezzo di allarmi gridati dai garanti, dagli avvocati, dalle associazioni? La risposta è scritta nei fatti, o meglio, nell’assenza di fatti. Non è stato preso nessun provvedimento deflattivo. La parola “indulto” è stata cancellata dal vocabolario di Palazzo Chigi. L’amnistia è un tabù impronunciabile.
La strategia del Guardasigilli Carlo Nordio si è rivelata un gioco di specchi. Prima il “Decreto Carceri” dell’estate 2024, presentato come la panacea, si è rivelato una scatola vuota: qualche telefonata in più (spesso rimasta sulla carta per mancanza di apparecchi), una semplificazione burocratica per la liberazione anticipata che non ha liberato nessuno, e tante promesse di “edilizia penitenziaria”. Poi il “Piano Carceri” del 2025: la vecchia e fallimentare idea del cemento, ancora padiglioni da costruire. È la logica del “chiudia moli e buttiamo la chiave”, ma vestita con l’abito formale della “certezza della pena”. La verità è che mentre il governo vara piani straordinari, la popolazione detenuta continua a crescere e i posti diminuiscono. Non c’è stata nessuna misura per mandare a casa chi ha pene residue brevi, chi è dentro per reati minori, chi potrebbe scontare la condanna in comunità. Nulla. Con il rischio che la pressione nella pentola aumenti.
E il coperchio, in molti istituti, sta saltando. Non sempre con le rivolte, ma con la degradazione silenziosa della dignità umana. Quando mancano le docce, quando l’acqua calda è un lusso, quando le visite mediche specialistiche sono un miraggio perché “man cano le scorte” o non c’è la scorta per l’accompagna mento, lo Stato sta abdicando al suo ruolo.
«QUI MUORE LA COSTITUZIONE»
È in questo contesto di desolazione istituzionale che si inserisce il grido d’allarme lanciato lunedì scorso da Riccardo Magi. Il segretario di + Europa non si è limitato a leggere le tabelle excel dal suo ufficio alla Camera; è entrato a Rebibbia. E quello che ha raccontato, uscendo da quel cancello grigio, è la cronaca di un disastro annunciato. «Qui muore la Costituzione», ha detto Magi. Non è retorica. È la constatazione fisica di una violazione sistematica dell’articolo 27. A Rebibbia, ha spiegato il deputato dopo la sua visita ispettiva, ci sono quasi 1.700 persone. La capienza regolamentare ne prevederebbe 1.100. Seicentro persone in più. Ma cosa significa, nel concreto? Magi lo ha descritto con la precisione di chi ha visto con i propri occhi: «Gli spazi destinati alla socialità sono stati trasformati in dormitori». Quelle salette dove si dovrebbe giocare a carte, parlare, fare un corso, o semplicemente non stare in cella, ora sono piene di brande. «Sono diventate posti in cui dormono dieci persone». Dieci persone in una stanza non pensata per dormirci.
E poi i dettagli, quelli che fanno male allo stomaco. «Il bagno attaccato al lavandino in cui si sciacquano gli alimenti». Proviamo a visualizzarlo. L’igiene minima, la separazione tra le funzioni corporali e il cibo, azzerata dalla necessità di incastrare corpi ovunque. Magi ha denunciato anche il collasso della sanità interna: «Si aspetta moltissimo per delle semplici visite specialistiche che spesso non si riescono nemmeno a fare».
Un detenuto malato è un detenuto due volte prigioniero: del carcere e del proprio male non curato. L’appello di Magi è diretto, senza filtri. Si rivolge direttamente a Giorgia Meloni. «Venga a visitare Rebibbia o qualsiasi altro carcere in Italia, magari insieme al presidente del Senato La Russa». È una sfida politica, ma prima ancora umana. Venite a vedere. Venite a respirare quest’aria viziata. Venite a vedere l’impossibilità fisica di quel “reinserimento sociale” che la Costituzione impone e che la realtà nega.
La richiesta di + Europa, portata avanti insieme a una delegazione che ha incontrato anche Gianni Alemanno (segno che il tema scuote coscienze trasversali), è chiara: serve un atto di clemenza. «Chiamatelo indulto o indultino», dice Magi, ma serve subito. Serve svuotare per poter riformare. Perché non puoi ristrutturare una casa mentre è piena di gente fino al soffitto. Le proposte sono sul tavolo: case di reinserimento sociale per chi ha meno di un anno di pena residua, numero chiuso per gli ingressi (se non c’è posto, non entri, come avviene in sistemi civili). «Se Meloni non vuole ascoltare le nostre proposte», ha rincarato Rosario Mariniello, vicesegretario di +Europa, «ascolti almeno il Papa e il Garante nazionale».
Ma il governo, finora, ha scelto il silenzio operoso delle betoniere fantasma. Ha scelto di ignorare che a Lucca si vive al 244% della capienza. Mentre la politica prende tempo, nelle carceri il tempo non passa mai. E lo spazio, quello vitale, è finito da un pezzo. I dati sono lì, impietosi, aggiornati a ieri. Ogni giorno che passa senza una misura deflattiva, è un giorno in cui lo Stato sceglie consapevolmente di violare le sue stesse leggi.


