Il 5 dicembre 2025, tra le mura del Carcere di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma, si è consumato un momento di cruda verità che ha riacceso i riflettori su un universo spesso dimenticato: quello penitenziario. Promosso dalla Camera Penale di Roma e dalla Commissione Carcere, il convegno “Cinquant’anni di Ordinamento Penitenziario. Una riforma dietro le sbarre” doveva essere un momento di riflessione istituzionale, ma si è trasformato in un’occasione di denuncia corale.

Dopo l’intervento di tutti i relatori, anche Gianni Alemanno ha contribuito a squarciare il velo dell’indifferenza, raccontando la realtà delle condizioni carcerarie, riferite al caldo soffocante d’estate, freddo gelido d’inverno a causa di infrastrutture fatiscenti, e una sensazione opprimente di abbandono da parte delle istituzioni. Denunce che, a quanto pare, hanno suscitato il malcontento della direzione carceraria, alimentando tensioni che fanno temere il rischio inaspettato di possibili ritorsioni disciplinari. Infatti si è verificato un episodio che appare incomprensibile.

Tutti gli interventi dei relatori si sono svolti sul palco e quando il presidente dell’Assemblea, Avv. Domenico Naccari ha invitato a parlare le persone detenute, primo tra gli altri Gianni Alemanno, è apparso naturale andare al podio da cui tutti erano intervenuti. Penitenziaria è intervenuta per indicare esattamente il posto e il microfono per gli interventi. Questo episodio solleva questioni fondamentali, come può la verità, quando scomoda, essere soggetta a sanzione? L’idea stessa di un provvedimento disciplinare per aver denunciato condizioni oggettive e disumane è un abuso che mina la libertà di espressione all’interno delle carceri. Perché la voce di una persona detenuta deve essere limitata quando tocca la realtà delle violazioni dei diritti umani?

La reazione a queste denunce, piuttosto che avviare un’immediata verifica o soluzione dei problemi (caldo, sovraffollamento), sembra concentrarsi sul messaggero piuttosto che sul messaggio. Le giustificazioni istituzionali, pur riconoscendo “parziali” problemi strutturali, tendono a minimizzare l’entità del disagio, creando un divario incolmabile tra l’esperienza vissuta e la narrazione ufficiale.

Questo muro di gomma non fa che acuire il senso di ingiustizia e l’opacità di un sistema che, per dettato costituzionale, dovrebbe tendere alla rieducazione e non alla mera afflizione. Si è sempre detto che l’articolo 27 della Costituzione italiana ci ricorda che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, un principio che stride violentemente con le condizioni descritte.

La differente percezione delle denunce, che sembrano concentrarsi unicamente sulla figura mediatica di Gianni Alemanno nonostante la mia partecipazione avvenuta sul podio, rivela come un interesse legittimo viene violato con queste forme di potere che di certo non danno visibilità al diritto, anzi lo offendono. La sottolineazione richiesta, il voler far intervenire le persone detenute da “sotto il palco”, sono gesti simbolici che rivelano una mentalità di controllo e gerarchia che mal si concilia con i principi di dignità della persona. In poche parole ci dicono che i detenuti non sono persone, devono essere sottomessi all’istituzione totale.

Cosa faranno ora organi di vigilanza? La Camera Penale di Roma ha il dovere morale e professionale di incalzare le istituzioni. Il Presidente del Tribunale di Sorveglianza, garante ultimo del rispetto dei diritti negli istituti di pena, che era presente all’evento e che ha visto quello che accadeva, deve vigilare affinché questi abusi non abbiano luogo e che la dignità umana sia preservata, come sancito dalla Costituzione.

La dignità umana, diritto inalienabile e universale, non si ferma dinanzi al cancello di un penitenziario. È lì, anzi, che dovrebbe brillare con maggiore intensità, come monito costante che la società civile non abbandona i suoi figli, neanche nel momento della loro espiazione. Zittire la voce di chi soffre non è solo un atto di amministrazione, è un atto che impoverisce l’anima collettiva, rinunciando a quell’etica della responsabilità che definisce la nostra stessa umanità.