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VIKTOR ORBAN PRIMO MINISTRO UNGHERIA, LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
Il secondo giorno della visita romana di Viktor Orbán si è trasformato, ieri, in una vetrina politica per Matteo Salvini. Mentre a Palazzo Chigi la premier Giorgia Meloni cercava di tenere a bada le uscite anti- europee del presidente ungherese, il leader della Lega ha scelto di farne una bandiera. L’incontro al Mit, durato un’ora, è stato presentato con toni calorosi: un «affettuoso» colloquio tra alleati, con tanto di foto davanti al plastico del Ponte sullo Stretto e invito ufficiale all’avvio dei cantieri. Ma dietro l’immagine da cartolina si è consumata una mossa tutta politica, studiata per marcare le distanze dalla premier e rilanciare la postura identitaria del Carroccio.
Salvini ha sottolineato con enfasi la “massima sintonia” con Orbán nella critica alle «politiche suicide di Bruxelles», attaccando frontalmente il Green Deal e la gestione dei dossier migratori e internazionali. Un messaggio che arriva poche ore dopo le frasi pronunciate dal leader ungherese - «l’Unione europea non conta nulla» - che hanno messo in forte imbarazzo Palazzo Chigi, costringendo Meloni a una prudente distanza e alla scelta di non commentare.
Orbán, nel frattempo, ha rilanciato il suo progetto di un asse anti- Kiev con Bratislava e Praga. Il suo consigliere politico Balazs Orban ha parlato apertamente a Politico di un fronte “pacifista” in crescita nell’Europa centrale. «Con l’aggravarsi delle difficoltà economiche — ha spiegato — sempre più nazioni capiranno che la pace è l’unica strada». Un messaggio che suona come una sfida diretta alle posizioni atlantiste e di sostegno militare all’Ucraina, che la presidente Meloni continua a difendere.
Per Salvini, invece, è l’occasione di mostrare vicinanza al leader magiaro e allo stesso tempo prendere le distanze da quella che considera una linea troppo accondiscendente nei confronti di Bruxelles. Una mossa coerente con la collocazione della Lega nei “Patriots”, la nuova formazione europea guidata da Orbán, e opposta alla famiglia dei Conservatori europei (Ecr), che Meloni ha guidato a lungo. E non è un caso che il vicepremier abbia dato grande risalto mediatico al faccia a faccia, diffondendo un comunicato dettagliato e foto studiate per veicolare l’idea di una sintonia profonda. Le parole del premier ungherese hanno provocato reazioni immediate.
Da Forza Italia, il ministro Paolo Zangrillo ha definito «banale» l’affermazione secondo cui l’Ue non conta nulla: «Se Orbán ritiene che l’Europa non conti, faccia qualcosa per far sì che conti di più», ha detto, rivendicando «il lavoro straordinario di Meloni e Tajani per costruire un’Europa più forte». Dalle opposizioni si sono levate voci indignate per gli attacchi di Budapest alla stampa italiana: Pd e M5S hanno denunciato il silenzio del governo, parlando di «complicità» con l’esecutivo ungherese e di un preoccupante allineamento politico.
A complicare il quadro, le frasi di Orbán arrivano mentre la premier è impegnata a difendere in sede europea il diritto di veto, una posizione che la accomuna formalmente a Budapest ma che, nei fatti, rischia di isolarla. Per Meloni, la visita di Orbán non cade nel momento migliore: alla vigilia di importanti negoziati sul dossier Ucraina, il premier ungherese alza i toni per rafforzarsi in vista delle elezioni di aprile e costringe Palazzo Chigi a un difficile equilibrio. Un equilibrio che si regge sulla capacità della presidente del Consiglio di mantenere rapporti costruttivi con Bruxelles, senza alienarsi il consenso della destra più sovranista.
Il Vaticano ha aggiunto un ulteriore tassello con le parole del cardinale Pietro Parolin, che ha auspicato «un ruolo più incisivo dell’Europa per la pace», evocando negoziati «magari non pubblici» in corso. Un appello che va in direzione opposta rispetto alla strategia divisiva di Orbán, ma che conferma la centralità della questione ucraina per gli equilibri del continente. Per Salvini, tuttavia, la partita è un’altra: ribadire la sua posizione alternativa e raccogliere consensi in un elettorato critico verso Bruxelles e diffidente verso il coinvolgimento italiano nella guerra. Lo ha fatto con toni enfatici, esaltando la sintonia con Orbán e criticando l’Ue, proprio mentre la premier cerca di contenere i danni diplomatici. È la fotografia plastica delle due declinazioni della destra di governo: da una parte la leader di Fratelli d’Italia che gioca la partita internazionale da alleata di Washington e Bruxelles, dall’altra il leader leghista che cavalca la retorica sovranista e anti- europea. Uno schema che rischia di riproporsi, con toni ancora più accesi, man mano che ci si avvicinerà alle prossime elezioni.


