L’uscita del presidente del Senato Ignazio La Russa sulla campagna per l’astensione ha sicuramente fatto rumore. Ma il vero boato politico è quello che si sta consumando a sinistra, tra un Pd che si divide sull’eredità renziana e una Cgil che sembra parlare da un’altra epoca.

Sullo sfondo, Giorgia Meloni osserva in silenzio, incassa e ringrazia. L’ennesimo autogol dell’opposizione è servito su un piatto d’argento. Il paradosso è evidente, e gli addetti ai lavori non hanno mancato di sottolinearlo già a dovere: la sinistra chiede oggi l’abrogazione di leggi sul lavoro che essa stessa ha prodotto e votato.

I quesiti referendari promossi dalla Cgil erano stati scritti nel 2015 e poi dimenticati in un cassetto e appaiono oggi buoni più per regolare vecchie faide che per leggere le sfide del lavoro contemporaneo. Matteo Renzi lo dice senza troppi giri di parole: «Il dramma di oggi non sono i licenziamenti, ma gli stipendi bassi. Questo referendum è un gigantesco regalo alla Meloni, che se la gode vedendo Landini mettere il Pd a chiedere l’abrogazione delle riforme del Pd».

E infatti la premier sta alla finestra, lasciando che sia l’opposizione a contorcersi su se stessa. Né proclami né crociate: il centrodestra si limita a ricordare, per bocca di esponenti come Adriano Paroli (FI), che l’invito all’astensione è perfettamente legittimo, come già avvenuto in passato, anche dallo schieramento avverso, per impedire il raggiungimento del quorum. E se La Russa, nelle vesti di seconda carica dello Stato, sbaglia ad incitare all'astensione, il punto politico resta: nessuno vieta di non votare, tanto più quando i quesiti sembrano scollegati dalla realtà. «Il Pd sta tornando indietro, si spacca internamente e segue la Cgil per paura di lasciarla ai 5 Stelle», osservano da Forza Italia.

Mara Carfagna, dal versante centrista della maggioranza, parla di «battaglia tutta interna alla sinistra», ed è difficile non coglierne la logica. Schlein chiama il partito a votare contro le riforme renziane, ma il partito, prevedibilmente, non risponde compatto. Intanto anche nel sindacato le crepe si allargano: la Cisl prende le distanze, definendo il referendum «lo strumento meno adeguato» per incidere sul lavoro. Il risultato? Frammentazione a sinistra, identità politica confusa, e una maggioranza che deve badare solo a non farsi male da sola. Tanto più che se c'è chi guarda al passato, c’è anche chi parla già il linguaggio del futuro. Papa Leone XIV ha scelto un nome che è tutto un programma. Un Leone come il XIII, quello della Rerum Novarum, che seppe leggere la modernità della rivoluzione industriale senza rinchiudersi nella nostalgia. E oggi Leone XIV alza lo sguardo sull’intelligenza artificiale, invitando a un uso responsabile e orientato al bene comune. «La comunicazione non è solo trasmissione di informazioni, ma creazione di cultura. L’IA ha un potenziale immenso, ma richiede responsabilità e discernimento», ha detto ai giornalisti in Vaticano. Parole che sembrano rimbombare in un paese in cui il dibattito politico si arrovella ancora sulle leggi del 2015. In questo scenario, il governo Meloni ha avuto buon gioco, convocando le parti sociali a Palazzo Chigi la scorsa settimana, e affermando di mettere sul banco 1,2 miliardi per la sicurezza sul lavoro, atto accolto con favore anche dai sindacati. Il paradosso, dunque, è servito: mentre la sinistra chiede l’abrogazione delle sue stesse riforme, mentre Landini cerca di risolvere a colpi di quesiti una crisi di rappresentanza che affonda le radici in anni di distanza dal mondo reale, è il governo che occupa — non senza una certa dose di opportunismo ma anche di pragmatismo — lo spazio vuoto e cerca di capitalizzare l'insperato vantaggio offerto dall'opposizione.

D’altra parte, non è da ieri che il sindacato fa i conti con una crisi di rappresentanza, rischiando di parlare ormai a una parte minoritaria dei lavoratori. E non una minoranza fragile o precaria, ma quella tutelata e garantita, quella dei lavoratori stabili del pubblico impiego o del parastato, sempre meno rappresentativa del mondo del lavoro com’è oggi. Di fronte a una rivoluzione che passa per algoritmi, nuove forme di occupazione e gig economy alla quale il Vaticano sa dare del tu, la maggioranza denuncia agevolmente i vecchi cavalli di battaglia del Novecento da cui il sindacato non riesce a staccarsi. Una sorta di autogol, che potrebbe permettere ancora una volta a Giorgia Meloni di vincere la partita senza toccare palla.