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GIORGETTI E MELONI
La legge di bilancio approvata dal Consiglio dei ministri segna un punto politico che va ben oltre i numeri contabili: cristallizza l’asse dell’austerità tra Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti, un binomio che ha preso forma negli ultimi tre anni e che oggi mette la premier nelle vesti di custode dei conti pubblici europei più che di leader di una destra “spendacciona”.
A dispetto della propaganda su fisco e pensioni, il “governo Meloni- Giorgetti” si muove nel solco della continuità con Mario Draghi. Anzi, per certi versi ne incarna una versione persino più rigorosa. Che Giorgetti sia l’unico ministro in comune tra i due esecutivi non è un dettaglio tecnico, ma un simbolo politico.
La manovra 2026 non si finanzia quasi per nulla in deficit: le misure verranno coperte da aumenti di tasse, tagli alla spesa e rimodulazioni di fondi nazionali ed europei. Un’impostazione che richiama direttamente la grammatica dell’austerità. Nella pratica, alcune coperture — come quelle sui contributi volontari delle banche — restano fragili, ma la scelta è netta e perfettamente coerente con l’obiettivo di tenere i conti in ordine e rassicurare Bruxelles. Giorgetti rivendica il miglioramento dei conti pubblici e punta a far uscire l’Italia dalla procedura Ue per deficit eccessivo già nel 2025, con effetti benefici “a largo spettro” per mercati e banche.
Il dato macroeconomico che certifica la virata è l’avanzo primario: da un saldo negativo del 3,5 per cento nel 2022 a un + 0,9 per cento del PIL nel 2025. Quattro punti di PIL in tre anni, un colpo di acceleratore che Draghi, da uomo di sistema, aveva gestito con gradualità. Meloni, invece, ha scelto di tenere la barra dritta. Per ragioni politiche e di credibilità internazionale: un governo nato tra la diffidenza dei mercati, un tempo apertamente ostile all’euro, oggi cerca legittimazione mostrando affidabilità contabile e fedeltà alle regole europee.
Il contrasto con la retorica di opposizione è netto. Meloni, che nel 2017 accusava i governi di «inchinarsi alle agenzie di rating», oggi rivendica proprio i giudizi positivi delle stesse per certificare la stabilità dell’Italia. È la metamorfosi di chi conosce il peso della memoria finanziaria del 2011, quando la crisi del debito costrinse Berlusconi alle dimissioni. Giorgetti non a caso ha rievocato quella stagione: «Normalmente la sinistra arriva al governo con golpe finanziari o giudiziari», ha detto, quasi a rimarcare che questa volta la destra gioca d’anticipo per non farsi travolgere.
Se il rigore di Giorgetti è la sostanza, la propaganda di Salvini è la forma. Il leader leghista prometteva l’abolizione della Fornero: tre anni dopo, la riforma è sostanzialmente ripristinata. Monti — l’uomo simbolo dell’austerità — l’ha fatto notare ironicamente: «Salvini dovrebbe dimettersi per incoerenza». Anche sulla cedolare secca e sull’Irpef i risultati sono modesti: un taglio di due punti sull’aliquota media per il ceto medio, nulla che somigli a una rivoluzione fiscale.
Sul Piano Casa Salvini ammette: «Devo parlare con Giorgetti, c’è qualcosa da fasare». Ma il punto è che Giorgetti non fasa, detta la linea. È lui a garantire la traiettoria che ha permesso all’Italia di «rompere il tabù» del rating, come dice lui stesso, togliendo al Paese l’etichetta di “pecora nera” del G7.
È lui a rassicurare Bruxelles, Francoforte e i mercati sulla «stabilità politica ed economica» che ha rimesso Roma nel gioco europeo. Un ruolo che non nasce oggi: ex presidente della commissione Bilancio, bocconiano, uomo stimato da Draghi, Giorgetti è la chiave di volta dell’equilibrio meloniano.
Una traiettoria che non piace alle opposizioni, ma che appare granitica. «La più piccola manovra che si ricordi, austera e rinunciataria», ha attaccato Elly Schlein. Ma è proprio la sua dimensione ridotta - e l’obiettivo di centrare il 3 per cento di deficit nel 2025 - a farne un manifesto politico. Giorgetti parla ormai come un commissario Ue: «Quando il rating sovrano sale, salgono anche quelli delle banche e delle imprese. È un dividendo di lungo periodo per cui vale la pena impegnarsi».
L’asse Meloni-Giorgetti è dunque molto più di un equilibrio interno alla maggioranza: è la scelta di campo di un governo che ha dismesso i panni della ribellione per indossare quelli della governance europea. Salvini può mugugnare, ma la stagione dei condoni e dei colpi di teatro è finita da un pezzo. La Lega resta con la sua propaganda, mentre Giorgetti e Meloni scrivono la manovra più draghiana di sempre, con l’avallo silenzioso di Bruxelles e il plauso delle agenzie di rating.


