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NICOLA PISANI, PROFESSORE ORDINARIO DI DIRITTO PENALE, UNIVERSITÀ DI TERAMO
Dopo il via libera unanime della Camera, la riforma del reato di violenza sessuale è ferma al Senato per alcuni “ritocchi”. Il testo approvato a Montecitorio mira a modificare l’articolo 609 bis del codice penale introducendo il principio del consenso “libero e attuale” come elemento centrale della fattispecie. Ma ci sono alcuni aspetti critici, messi in luce da giuristi e accademia, di cui si discuterà nel ciclo di audizioni avviato in questi giorni in commissione Giustizia a Palazzo Madama. Noi ne abbiamo parlato con Nicola Pisani, ordinario di diritto penale all’Università Mercatorum di Roma.
C’è chi sostiene che l’impostazione attuale produrrà un’inversione dell’onere probatorio a carico dell’imputato. Vede anche lei questo rischio?
Diciamo che la risposta è più complessa e si gioca sul rapporto tra piano processuale della prova e piano sostanziale della tipicità del nuovo reato. Siccome nella struttura della nuova fattispecie il dissenso è un elemento costitutivo ( negativo) del fatto, il PM avrebbe pur sempre l’onere di provare il mancato consenso all’atto sessuale come elemento dell’accusa. Quindi non parlerei di una vera e propria “presunzione di colpevolezza” in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Il problema piuttosto è quello di una figura criminosa che ha una “sostanza” tutta psicologica, soprattutto nei casi in cui il dissenso - non accompagnato da violenza fisica - si manifesti istantaneamente nello sviluppo dell’interazione intima tra due soggetti che avevano prestato un iniziale consenso al rapporto sessuale.
Parlerebbe di “presunzione di credibilità” della persona offesa?
Il rischio di una polarizzazione della prova del fatto sulle dichiarazioni della persona offesa è elevatissimo, e con esso quello di possibili strumentalizzazioni. Più che di inversione dell’onere della prova, quindi, mi sembra che il vizio risieda nel deficit di verificabilità empirica degli elementi significativi del fatto ( art. 25 comma 2 Cost.), che si riverbera sulla reale possibilità di una prova a discarico per l’imputato.
Diventerà impossibile, dunque, difendere un imputato per violenza sessuale?
Ribadisco: anche nel sistema attuale l’ipotesi di violenza mediante minaccia ( 609 bis c. p.), la coartazione della volontà della vittima non lascia tracce materiali. Piuttosto il requisito della mancanza di un consenso libero e attuale - che di per sé ha una sua ragionevolezza - se non accompagnato dal richiamo ad una obiettivizzazione del dissenso, mi pare comprimere fortemente il diritto di difendersi provando dell’imputato.
La giurisprudenza di legittimità aveva già esteso il concetto di violenza, che non è sinonimo di forza fisica. Era necessario, a suo parere, un intervento legislativo?
Credo onestamente di sì. Si tratta di un progresso anche simbolico in una giusta direzione, quella del superamento di una concezione “autoritaria” del rapporto sessuale basata sull’idea arcaica che la vittima di violenza debba opporre una resistenza attiva alle iniziative, per non dimostrarsi in re ipsa disponibile. E dunque, è giusto che il legislatore voglia collocare nell’orbita della sanzione penale anche forme di compressione dell’autodeterminazione sessuale che non implichino l’utilizzo della violenza fisica. Anche sul piano dei principi, dinanzi alle evoluzioni del “diritto vivente”, non sempre rispettose del divieto di analogia in materia penale ( si pensi alla nozione di violenza implicita) è preferibile che si pronunci il Parlamento sovrano formulando scelte di incriminazione chiare e precise su temi di tale rilevanza politico- criminale.
Altra criticità segnalata dagli operatori del diritto riguarda la mancata graduazione delle pene, dai fatti di minore e maggiore gravità.
Ritengo effettivamente che questa sia una criticità dell’odierna disciplina. Sia sul versante della colpevolezza che delle modalità offensive del fatto, la congiunzione carnale violenta presenta una componente “predatoria” che porta con sé un disvalore disomogeneo e assai più intenso, rendendola meritevole di una risposta sanzionatoria più grave, rispetto all’ipotesi dell’atto sessuale in difetto di consenso.
L’Europa si sta gradualmente allineando alle indicazioni della Convenzione di Istanbul. La Spagna ha scelto il modello del “consenso affermativo”, la legge della Germania invece si basa sul dissenso esplicito, tramite gesti o parole. Quale via dovrebbe percorrere l’Italia?
La scelta della Spagna, che con il modello “yes means yes” sposta il baricentro sul consenso espresso che diviene una condizione di liceità dell’atto sessuale, non mi pare da accogliere. Si corre il rischio di una proceduralizzazione dei rapporti intersoggettivi, con l’assurda conseguenza di punire atti sessuali compiuti con un consenso implicito del partner, non espressamente manifestato.
La scelta tedesca del 2016 mi sembra più equilibrata: l’incriminazione consiste nell’atto sessuale in contrasto con una volontà riconoscibile. Ciò non equivale, come si è detto, al pretendere che la vittima si munisca di una prova sostanziale del dissenso perpetrando quel processo di colpevolizzazione figlio di concezioni illiberali. Si tratta piuttosto di concepire il fatto tassativizzando degli elementi obiettivi, suscettibili di prova in senso empirico, degli in- dicatori dai quali poter desumere il reale, chiaro e percepibile dissenso della vittima.
Così facendo si porrebbe un argine alle ipotesi di “dissenso ellittico”, di riletture postume della vittima che matura ex post una volontà contraria “sopita”. Insomma, occorre evitare che il nuovo reato si traduca in un vulnus al principio di prevedibilità e di personalità della responsabilità penale.






