Matteo Salvini non aspetta nemmeno di smaltire l’adrenalina post-elettorale per impallinare la legge sulla riforma del reato di violenza sessuale. Il leader della Lega, davanti alle telecamere convocate per commentare il voto in Puglia e Campania, ha rivendicato apertamente lo stop del Carroccio a un testo che solo una settimana fa aveva incassato il via libera unanime della Camera e che Palazzo Madama avrebbe dovuto approvare in via definitiva, proprio nel giorno dedicato alla lotta contro la violenza sulle donne. Una frenata che ha sorpreso perfino parte della maggioranza, e che soprattutto ha contraddetto il patto politico che Giorgia Meloni aveva stretto con Elly Schlein: un accordo bipartisan, simbolico e politico, per arrivare a una legge condivisa.

«Il principio è condivisibile», ha osservato Salvini, prima di demolire il cuore della norma: «Ma così rischia di intasare i tribunali, lascia spazio alla libera interpretazione e a vendette personali». Il vicepremier descrive il testo come troppo «vago», addirittura «pericoloso», paventando un’ondata di denunce strumentali. Parole che spingono il dibattito su un crinale scivoloso, rimettendo in discussione l’essenza stessa di una riforma che Meloni e Schlein avevano blindato con un sigillo politico raro. Tanto che ora l’Ufficio di presidenza della commissione Giustizia ha deciso di riaprire il dossier, convocando esperti e ripartendo quasi da capo.

Ma il colpo di freno sul consenso non è solo una reazione a caldo ai risultati delle Regionali. Al contrario, Salvini si muove con la precisione di chi sente che, per la prima volta dopo anni e grazie a Luca Zaia, l’inerzia politica del centrodestra torna a soffiare dalla sua parte. In Veneto, la spinta del Doge ha rilanciato il Carroccio a livelli inattesi, mentre FdI ha mostrato i primi segni di riflusso politico. «Abbiamo vinto in una realtà dinamica, produttiva ed esigente», insiste il leader leghista, elencando uno a uno i suoi pezzi da novanta: Zaia, Vannacci, Giorgetti, i sindaci. E rivendica una crescita «uniforme» anche in Puglia e Campania, con l’ennesima punzecchiatura a Conte: «Superarlo a casa sua vuol dire che la credibilità ce l’hai».

Ed è proprio in questo contesto che va letta la seconda scossa della giornata: quella che è arrivata da Montecitorio. Mentre Salvini rivendica il ruolo del “partito del Nord” (glissando su ciò che in prospettiva potrebbe creare problemi a lui stesso), il governo – attraverso la sottosegretaria Matilde Siracusano – chiede ai capigruppo di calendarizzare in Aula, già a gennaio, il ddl sul premierato. Un’accelerazione improvvisa, che nel Pd viene interpretata come la risposta nervosa di Meloni al dietrofront leghista e al nuovo equilibrio emerso dalle urne. «Meloni alza subito la voce», attacca la capogruppo dem Braga, «e riafferma il suo modello di donna sola al comando».

Il premierato torna così in cima alla lista, con una spinta che ha il sapore della contromossa politica. Perché la verità – sussurrano in ambienti della maggioranza – è che la premier avrebbe accolto con inquietudine il combinato disposto tra l’avanzata della Lega al Nord e la performance opaca di FdI al Sud. E teme che il dossier autonomia, con gli accordi sulle materie non Lep già siglati con le regioni settentrionali, possa trasformarsi in una zavorra pesante in vista del referendum costituzionale e, soprattutto, delle Politiche del 2027.

Sempre che la legge elettorale resti quella attuale. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia. O forse no. Perché nell'attrito tra Salvini e Meloni, tutto – dal consenso sessuale al premierato, dall’autonomia alla geografia del voto – finisce per intrecciarsi in un unico nodo politico: l'agenda del centrodestra. E il dietrofront della Lega sulla legge simbolo della Giornata contro la violenza potrebbe essere soltanto il primo capitolo di un confronto che corre molto più in profondità.