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Zaia e Schlein
Non è stata la battaglia chiave in grado di sovvertire le sorti del conflitto. L'entusiasmo trionfalistico di Elly Schlein è comprensibile, parte ormai integrante del lessico di una politica nella quale l'immagine è tutto, ma non giustificato.
Detto questo, resta però il fatto che dalla tornata elettorale d’autunno il centrodestra esce più debole e il campo largo più forte. In buona parte, ma non solo, per rapporti di forza, equilibri e squilibri, all'interno delle distinte coalizioni.
Giorgia Meloni ha perso in Campania contro gli avversari, non tanto per non aver realizzato la missione impossibile di conquistarne il governo ma per il clamoroso tonfo di un candidato che era essenzialmente suo e che non ha toccato palla. Ma ha perso nella stessa misura nel Veneto, dove la Lega di Zaia non solo la ha raggiunta ma la ha doppiata siglando un risultato quasi umiliante per il partito tricolore che appena due anni fa aveva spopolato toccando il 37% dei consensi.
Elly è più forte perché la Campania era la prova del nove del suo Campo, l'esperimento sul terreno, anzi sul territorio, dall'esito del quale dipendeva la possibilità stessa di procedere con l'alleanza Pd-5S-Avs. Le è andata bene non solo perché ha vinto ma anche, forse soprattutto, perché il partito di Conte ne è uscito a testa alta, arrivando tra i propri voti e quelli assimilabili della Lista Fico al 15% e perché tuttavia il suo Pd ha mantenuto saldamente il primato nel centrosinistra, piazzando così un'ipoteca ulteriore sulla candidatura alla premiership.
Giorgia invece ha perso perché il voto complessivo ha scalfito la sua immagine onnipotente all’interno della destra italiana. Dovrà fare i conti con una Lega ringalluzzita che non ha alcuna intenzione di onorare l'accordo che assegnerebbe a FdI la candidatura per il governo della Lombardia e, peggio, con una Lega nella quale il peso specifico del partito del nord, di cui Zaia è una sorta di amministratore delegato, si è moltiplicato. L'ex Doge, al quale Salvini deve un successo per lui comunque prezioso, passerà all'incasso, nel Carroccio, chiedendo la ristrutturazione del partito sul modello della Cdu- Csu tedesca.
Con i veneti nella parte che in Germania spetta ai bavaresi e il suo peso specifico, come leader degli stessi veneti destinato a impennarsi. Ma nella coalizione dover trattare con i nordici invece che con il molto meno temibile Salvini vorrà dire arrivare molto presto alla sofferta decisione sull'applicazione immediata dell'autonomia differenziata per le materie non soggette ai Lep a norma di Consulta: la sola cosa che interessi davvero la Lega nordica. Ma non è che per Elly la via crucis ' testardamente unitaria' sia finita. Il campo largo ormai è un dato di fatto ed è un suo successo anche personale, ma Conte è più che mai deciso a sfidarla nella competizione per la premiership.
Sempre che quella competizione esista davvero e dipenderà dal passaggio chiave che, come d'abitudine, è stato rinviato all'ultimo scorcio della legislatura: la riforma elettorale. Da questo punto di vista il voto delle Regionali è decisivo. Con un simile distacco in Campania e Puglia, e anche qualora fosse molto ridimensionato portando l'attuale vantaggio di 30 punti percentuali del centrosinistra a solo dieci, comunque la destra non conquisterebbe neppure un collegio in quelle due regioni e rischierebbe pertanto sia la sconfitta che l'altrettanto temuto pareggio.
Dunque per Giorgia Meloni modificare la legge elettorale non è più una gradita opzione ma un perentorio obbligo. La quota maggioritaria deve essere abolita. Donzelli ha in effetti aperto subito le danze.
Ma le stesse ragioni che costringono la premier a cambiare la legge elettorale spingono ora il Pd, in precedenza possibilista sia pur con la dovuta discrezione a fare muro rifiutando ogni dialogo sulla legge elettorale. Solo che anche la Lega, per motivi diversi da quelli del Nazareno, non ha interesse a modificare la legge, dal momento che con il proporzionale finirebbe per perdere parecchi seggi, e dopo il Veneto si tratta di una Lega molto più baldanzosa.
In una botta elettorale sola, la leader di FdI ha perso la possibilità di chiudere un’intesa bipartisan tra i due partiti maggiori e ha visto diventare molto più difficile la strada di una legge imposta dalla maggioranza coesa con il voto di fiducia. È vero che dall’altra parte della barricata una legge che imponesse l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda, se mai fosse accettata dal Colle e dalla Consulta, scatenerebbe una competizione durissima nel campo largo ma neppure questo è necessariamente un motivo di consolazione per Giorgia, che preferisce di gran lunga avere per rivale Elly Schlein piuttosto che Conte o una terza figura tirata fuori all'ultimo momento come mediazione tra i due papabili del centrosinistra.
Insomma, non è vero che il voto delle Regionali, finito in pareggio per tre a tre e nel quale tutti hanno mantenuto i loro territori, ha cambiato poco o niente. La leader dell'opposizione è un po' più forte, quella della destra e del governo un po' più debole e per la prima volta dal 2022 messa sotto scacco. Non è una rivoluzione nel quadro politico italiano ma neppure un passaggio trascurabile.


