C’è un passaggio, nelle analisi del day after delle Regionali a Palazzo Chigi, che potrebbe restituire più di altri lo stato d’animo di Giorgia Meloni: il voto in Puglia, Veneto e Campania, se non una sconfitta, è quanto meno un campanello d’allarme poiché segna l’inizio di una fase nuova, meno lineare e meno prevedibile dell’onda lunga che dal 2022 ha accompagnato la parabola di Fratelli d’Italia.

Risultati con luci e ombre, come ammettono anche gli sherpa della presidente del Consiglio: luci rispetto a cinque anni fa, quando FdI era un partito minoritario; ombre se rapportate al ciclo politico degli ultimi tre anni, che per la prima volta sembra conoscere un rallentamento fisiologico. Da qui parte la riflessione politica della premier, concentrata su due fronti che nelle prossime settimane diventeranno prioritari: il referendum sulla giustizia e il cantiere della nuova legge elettorale.

Due dossier diversi, ma entrambi decisivi per il futuro del governo. Le conferme del campo largo, soprattutto in Campania e Puglia, hanno esercitato un effetto galvanizzante su Pd e M5s. Non è un caso che sia Giuseppe Conte, con toni più aggressivi, sia Elly Schlein, abbiano immediatamente puntato tutto sulla valenza politica del referendum, trasformandolo nel primo test nazionale per “dare una spallata a Meloni”.

È proprio questa euforia dell’opposizione che induce Palazzo Chigi ad alzare il livello di allarme. Il primo rischio riguarda la politicizzazione estrema della consultazione: una dinamica che, avvertono gli strateghi della maggioranza, potrebbe favorire il fronte del no, soprattutto se la narrazione anti-casta di derivazione grillina riuscirà a spostare anche una minima quota di elettorato incerto.

Lo ha dimostrato Conte, che non perde occasione per richiamare il tema dell'impunità del ceto politico come motivo per respingere la riforma, prescindendo dal merito del quesito. Per Meloni, invece, la linea è opposta: tenere i partiti della coalizione lontani dai comitati per il sì, per evitare che il voto diventi un nuovo “governo sì/governo no”, come accadde con il referendum renziano, ma rimanere ostinatamente sui contenuti della riforma.

Il secondo fattore di allarme è l’astensionismo, ormai strutturale. La partecipazione è in caduta libera, e il fatto che il referendum confermativo non preveda quorum cambia completamente il perimetro del rischio: in un contesto di affluenze basse, potrebbero prevalere quei settori che hanno apparati capaci di mobilitare al voto. E a sinistra, ricordano al governo, sindacati e reti civiche sono molto più radicati.

Gli ultimi sondaggi – come quello commissionato da La7 qualche giorno fa – danno il sì avanti (46%), con il no al 28% e una larga fetta di indecisi, ma il punto politico è un altro: quanto voto d’opinione si tradurrà in voto reale? Quanti tra i cittadini disposti a dire la propria a qualcuno che li interpella dall'altro capo del telefono sono poi disposti a ripetere la loro opzione in una cabina elettorale?

Parallelamente, sul tavolo c’è la legge elettorale. Tema esplosivo, perché taglia in modo trasversale maggioranza e opposizione. Le distanze tra i partiti della coalizione si sono già viste nelle ore successive al voto. In attesa del referendum, il centrodestra ragiona su una cornice proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione che supera la soglia fissata dalla Consulta. FI è prudente, la Lega meno entusiasta, mentre FdI insiste sulla necessità di evitare “papocchi” post-elettorali. Lo ha ribadito anche Raffaele Nevi, portavoce azzurro: servono regole che garantiscano stabilità, pur mantenendo l’impianto maggioritario della scelta del premier. Il punto cruciale, in questo caso, è il timing.

Avere evocato la riforma la sera stessa della sconfitta al Sud, come ha fatto Giovanni Donzelli, non è stato saggio: l’impressione è che accelerare ora possa ritorcersi contro l’intero progetto. Tanto più in un quadro in cui l’opposizione è tornata competitiva. Matteo Renzi l’ha sintetizzato con la consueta vis polemica: la legge attuale ha dato vita al governo “più longevo e stabile della Repubblica”, il problema – sostiene – non è il sistema, ma l’unità del centrosinistra, oggi ritrovata. Il banco di prova, sulla sponda della maggioranza, sarà la capacità del governo e di tutto il centrodestra di non farsi intrappolare dall'opposizione in una campagna referendaria con toni da ordalia.