«Siamo giunti all’ultimo stadio di quel rituale di degradazione pubblica degli indagati che accompagna tutti i casi di cronaca: il livello attuale è quello del reality show, con indagini in presa diretta e il pubblico che vota da casa, schierandosi in opposte tifoserie, complice anche l’uso spregiudicato dei social media». È un giudizio estremamente critico quello di Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano- Bicocca, secondo cui le nuove indagini sull’omicidio di Chiara Poggi sono diventate uno spettacolo mediatico. Uno spettacolo già consumato in passato, a carico di Alberto Stasi, condannato in via definitiva ma senza superare completamente il ragionevole dubbio dettato da due precedenti assoluzioni. «La condanna di Stasi - spiega al Dubbio - non ha mai convinto sotto il profilo strettamente giuridico e da qui, ipotizzo, è nata l’esigenza di riaprire le indagini su una vicenda così controversa».

A 18 anni da un delitto e con una persona condannata in via definitiva, si riapre il caso Garlasco. Che idea si è fatto di questa situazione?

La premessa d’obbligo è che non conosco gli atti, come non li conoscono tutti quelli che formulano giudizi assertivi sulla vicenda. La mia impressione è che si stia indagando sull’indagine, si stanno evidenziando omissioni ed errori che avrebbero potuto imprimere una diversa direzione alle investigazioni. Ma è presto per dire se questo cold case, per il quale comunque c’è già un accertamento irrevocabile, possa produrre nuovi risultati conoscitivi attendibili. Anche la scienza ha dei limiti, nonostante l’indubbio progresso tecnologico registratosi nel frattempo.

Andrea Sempio è già stato archiviato in passato e oggi si ritrova nuovamente indagato. Qual è il rischio che la riapertura di un caso, soprattutto quando è mediaticamente esposto, porti a una “mostrificazione” dell’indagato, compromettendo il principio di presunzione di innocenza e l’equilibrio del processo?

La riapertura delle indagini a carico di Sempio è un caso veramente eccezionale, posto che sulla vicenda si è formato un giudicato di condanna che esclude, per quanto a mia conoscenza, ipotesi di concorso di persone nel reato. Nonostante gli sforzi del legislatore, invero abbastanza limitati, penso al timido decreto legislativo n. 188 del 2021, la presunzione d’innocenza è la vera vittima del processo mediatico. Un'indagine come questa avrebbe dovuto essere condotta nel più stretto riserbo da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Il caso ha attirato l’attenzione mediatica e suscitato un intenso interesse pubblico, spesso oltrepassando il confine tra giustizia e spettacolo. Come interpreta questo fenomeno del “voyeurismo giudiziario” e quale impatto ha sulla percezione pubblica delle sentenze e sulle garanzie processuali?

Siamo giunti all’ultimo stadio di quel rituale di degradazione pubblica degli indagati che accompagna tutti i casi di cronaca. I deboli argini della disciplina codicistica sono definitivamente crollati sotto il peso della esondante pressione mediatica. Il livello attuale è quello del reality show, con indagini in presa diretta e il pubblico che vota da casa, schierandosi in opposte tifoserie, complice anche l’uso spregiudicato dei social media. Da tempo lamentiamo lo scadimento dei costumi giudiziari, senza però avere il coraggio di scelte, anche impopolari, per imporre la dovuta sobrietà di fronte alle sofferenze che inevitabilmente comporta un procedimento penale. Non tutto può essere spettacolarizzato e il processo penale rimane una immane tragedia, non dobbiamo mai dimenticarlo.

Sulla condanna di Stasi ci sono ancora molti dubbi: il ministro Nordio ha sostenuto che dopo due assoluzioni è sbagliato arrivare ad una condanna senza rifare il processo e anche il pg di Cassazione affermò che non era possibile giungere ad una decisione. Ritiene che in questo caso sia stato correttamente applicato il principio del ragionevole dubbio?

Il processo indiziario impone una ancor più rigorosa applicazione della regola di giudizio per cui la condanna può essere pronunciata solo quando l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Stasi è stato condannato dopo essere stato assolto per due volte dai giudici di merito. Un caso paradigmatico di ragionevole dubbio che avrebbe imposto l’assoluzione e che comunque avrebbe dovuto limitare l’intervento della Cassazione di fronte alla doppia conforme di assoluzione. In una parola, la condanna di Stasi non ha mai convinto sotto il profilo strettamente giuridico e da qui, ipotizzo, è nata l’esigenza di riaprire le indagini su una vicenda così controversa.

Ritiene che il sistema giuridico italiano necessiti di una riforma riguardo alla gestione dei processi mediatici e alla tutela della privacy degli imputati? Quali cambiamenti ritiene necessari per evitare che la giustizia venga “distorta” dall’opinione pubblica?

Una riforma è doverosa e urgente, ma deve essere ispirata a un corretto bilanciamento di interessi. Le attuali conseguenze penali della violazione del segreto investigativo sono risibili, basta pagare un’ammenda di poche centinaia di euro per estinguere il reato di pubblicazione arbitraria degli atti, mentre la violazione del segreto d’ufficio rimane sempre un reato commesso da ignoti. Serie proposte di riforma ci sono, dalla responsabilità diretta delle società editoriali fino allo spostamento della competenza investigativa per questi reati in capo a pubblici ministeri di un diverso distretto. Manca, però, la volontà politica di rendere serie le conseguenze delle violazioni.