Diciotto anni di ragionevoli dubbi. L’unica certezza attorno alla morte di Chiara Poggi, uccisa il 13 agosto 2007, nella sua casa a Garlasco, rischia di essere questa. Dopo una condanna a 16 anni per l’ex fidanzato Alberto Stasi e una nuova inchiesta a carico di Andrea Sempio, amico del fratello della vittima, tutto ciò che resta sul setaccio sono giustizia spettacolo e fake news, questa volta in diretta social h24. Un modo semplice e veloce per rendere quasi impossibile ogni accertamento della verità.

Perfino il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è lasciato andare a delle considerazioni, di metodo, più che di merito: «Trovo irragionevole - ha detto a “Zona Bianca” - che dopo una sentenza o due sentenze di assoluzioni sia intervenuta una condanna senza nemmeno rifare l’intero processo. Tutto questo è irrazionale perché, se per legge si può condannare soltanto, al di là di ogni ragionevole dubbio». D’altronde, le parole del ministro nascondono una ferita aperta, quella riforma incompiuta sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione che già l’ex deputato Gaetano Pecorella aveva tentato di portare a casa, sogno infranto dalla Corte costituzionale. E il caso Stasi rappresenta perfettamente il conflitto tra “dubbio razionale” e certezza “emotiva”.

Un conflitto riassunto dalle parole del procuratore della Cassazione, Oscar Cedrangolo, che nel 2015 chiese ai giudici di annullare la sentenza di condanna dell’appello bis, dopo ben due sentenze di assoluzione. «Tra tutte le incertezze c’è una cosa chiara: se l’imputato è innocente deve essere assolto, se si riesce a dimostrare la colpevolezza allora va inflitta una pena adeguata all’atrocità del delitto. In questa sede - disse in aula - non si giudicano gli imputati, ma le sentenze. Io non sono in grado di stabilire se Alberto Stasi è colpevole o innocente. E nemmeno voi. Ma insieme possiamo stabilire se la sentenza è stata ben fatta o meno. A me pare che la sentenza sia da annullare».

Non servì a nulla: il 12 dicembre 2015, la Quinta sezione della Cassazione rigettò la richiesta, confermando la sentenza dell’appello bis. A non convincere il pg erano pezzi che non combaciavano, salti logici ingiustificati e domande rimaste senza risposta. Ancora oggi, a guardare le divisioni attorno a questa sentenza il dubbio c’era o, almeno, sembrava esserci. Lo dice pure la difesa di Sempio, d’altronde, che nessun interesse avrebbe ad alimentare tale tesi.

Ma le parole del ministro hanno ricevuto subito una risposta da parte del segretario dell’Anm, Rocco Maruotti, secondo cui non è «né irragionevole né irrazionale» il fatto che una sentenza di assoluzione «venga riformata». E la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio non deve trasformarsi in «un ostacolo insormontabile per il solo fatto che vi sia stata...una sentenza di assoluzione». Il ragionevole dubbio, ha spiegato recentemente la VI sezione penale della Cassazione, deve però essere la bussola che orienta ogni sentenza penale. Una regola fondamentale,dal momento che è proprio ciò a fare la differenza tra una condanna e un’assoluzione.

Secondo la Corte, che ha ripreso giurisprudenza consolidata, l’articolo 533 c.p.p. permette di condannare un imputato solo quando le prove a carico sono così schiaccianti da rendere ogni altra ricostruzione non solo improbabile, ma irrilevante. Le ipotesi alternative, insomma, devono essere completamente lontane dalla realtà, quasi “impossibili”. Non è sufficiente, dunque, esaminare una tesi, ma è necessario metterla a confronto con le argomentazioni dell’altra parte, seguendo un “protocollo logico” che esclude la tentazione di ricorrere a scorciatoie come “la plausibilità” o la “verosimiglianza”.

Il ragionevole dubbio, dunque, non è una questione di interpretazione personale, ma una regola ferrea che impone un’analisi completa di tutte le prove, comprese quelle che demoliscano la tesi dell’accusa. Non basta dire che la versione dell’accusa è più convincente di quella della difesa: il giudice ha il dovere di confutare con argomentazioni chiare e concrete le ricostruzioni alternative. E la sua motivazione non può essere vaga: deve dimostrare la totale inattendibilità di certe ipotesi.

Nel caso di Stasi questo principio è stato rispettato? Secondo il pg di Cassazione e la sua difesa no, secondo i legali della famiglia Poggi, invece, il dubbio è più che demolito.

Intanto, però, le indagini sono riaperte. E con esse anche il buco nero delle cose che non tornano. Come l’impronta 33, quella che apparterrebbe a Sempio e che però, sembra essere scomparsa o forse distrutta. La difesa di Sempio, ieri, ha chiesto delucidazioni, delle quali rimane in attesa. Si era detto, in un primo momento, che ci fossero tracce di sangue della vittima: ma era una fake news, buona per i titoli delle prime pagine. Anche perché, a quanto pare, l’impronta, prelevata insieme a un frammento d’intonaco, potrebbe essere stata distrutta dopo la condanna definitiva di Stasi, una prassi quando le sentenze diventano irrevocabili.

La procura di Pavia sta cercando quel frammento nei propri archivi, ma stando a quanto si legge in due sentenze della Corte d’assise d’appello di Milano di settembre 2021 e febbraio 2022, quei reperti sono stati venduti o distrutti se privi di «valore economico», mentre nel fascicolo d’ufficio sarebbero stati conservati solo i documenti. Nell’elenco corpi di reato allegato alle sentenze non compare mai la “traccia 33”.

Un mistero nel mistero, mentre lo storytelling si arricchisce di nuovi particolari: come quello secondo cui l’assassino non si sarebbe lavato le mani in bagno e non avrebbe pulito poi dispenser e lavabo dalle tracce di sangue o un nuovo testimone, un agricoltore che, lavorando nei campi vicino alla villa, avrebbe sentito Chiara Poggi litigare con il suo assassino, come segnalato nel rapporto di un investigatore privato che nove anni fa aveva ricevuto mandato dalla difesa di Stasi di pedinare Sempio. Il copione di questo film è dunque solo all’inizio.