I giudici bocciano ancora gli inquirenti del Qatargate, dichiarando illegale - questa volta definitivamente - il bavaglio imposto ad Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento europeo, indagata nel presunto scandalo di corruzione che ha travolto le istituzioni europee. Una nuova bocciatura pronunciata dalla “Chambre des mises en accusation”, che aveva già giudicato «non conforme ai requisiti legali» il tentativo di silenziare l’eurodeputato Marc Tarabella per mantenere un «clima sereno». Turbato, secondo gli inquirenti, solo dalle notizie potenzialmente favorevoli agli indagati e dalle loro tesi difensive e non dalle innumerevoli fughe di notizie pro-accusa, che sono state riversate addirittura in un libro, con sentenza di colpevolezza già scritta.

Kaili ha contestato le condizioni imposte, in quanto comunicate, secondo i suoi legali, oltre i termini fissati dalla legge. Per i giudici, però, i termini sarebbero stati rispettati, motivo per cui, data la gravità dei reati contestati - la corruzione pubblica e il riciclaggio da essa derivante, che «sempre assumendoli accertati (...) rappresentano un pericolo per l’equilibrio della democrazia e scuotono le fondamenta dello Stato di diritto e delle naturali e necessarie fiducia dei cittadini nelle istituzioni elette» -, sono state confermate cinque condizioni. Kaili dovrà risiedere effettivamente al proprio domicilio e non modificarlo senza averne preventivamente informato il magistrato istruttore, non potrà lasciare l’area Schengen senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, non potrà entrare in contatto con gli altri indagati, ad eccezione del marito Francesco Giorgi, dovrà rispondere a tutte le convocazioni delle autorità di polizia o giudiziarie e sottoporsi al follow-up del servizio misure alternative.

L’eurodeputata potrà, però, raccontare la propria verità e difendersi pubblicamente, cosa che, fino a questa mattina, le sarebbe costata addirittura l’arresto. Un rischio corso perfino dai legali degli indagati, in totale violazione dello Stato di diritto. E proprio per questo motivo l’ex vicepresidente ha chiesto chiarimenti al Parlamento europeo, sottolineando la violazione, da parte dell’autorità giudiziaria belga, di «uno dei cinque diritti fondamentali» della Carta dei diritti dell’uomo dell’Unione europea. «Uno Stato membro dell’Ue - aveva chiesto Kaili nella sua interrogazione - può limitare la libertà di espressione dei singoli e dei politici?». Secondo i giudici no, come spiegato chiaramente dalla sentenza che ha “ridato la parola” a Tarabella, chiarissima nel merito: se per rimettere in libertà qualcuno non è necessario un controllo periodico di legalità, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una misura di proroga che impone una o più condizioni nuove l’autorità giudiziaria dovrà «esporre le ragioni che giustificano questa nuova restrizione alla libertà di circolazione». L’ordinanza del 22 dicembre 2023, invece, aveva imposto il bavaglio (diretto e indiretto) senza giustificarne la necessità, ammantando il tutto dietro l’esigenza di proseguire l’inchiesta «in un clima sereno». Nella sua impugnazione, Tarabella aveva lamentato la lesione del suo diritto fondamentale alla libertà di espressione e alla difesa, «sebbene la restrizione non sia giustificata da nessuno dei criteri dell’articolo 16» della legge sulla detenzione preventiva in Belgio, che prevede misure restrittive in caso di pericolo di fuga, di distruzione delle prove, di reiterazione del reato e di collusione con terzi soggetti. «Il “clima pacifico” non è» tra questi criteri, aveva sottolineato l’eurodeputato. Inoltre, la nuova condizione, a suo dire, avrebbe violato anche l’articolo 57, paragrafo 8, comma 4, del Codice di procedura penale belga, impedendo anche anche agli avvocati di comunicare con la stampa. Il codice prevede infatti che l’avvocato possa, «quando l’interesse del suo cliente lo richiede, comunicare informazioni alla stampa».

Insomma, una vera e propria assurdità. Anche perché tale misura è arrivata solo nel momento in cui l’inchiesta ha iniziato a traballare, svegliando dal proprio torpore buona parte della stampa. Nessuno, invece, si è posto il problema del “clima” quando l’indagine era ancora nelle sue fasi iniziali. La questione è emersa solo a fine del 2023, quando già il giudice istruttore Michel Claise era stato costretto a lasciare l’indagine per via dei suoi rapporti con l’eurodeputata Maria Arena (indagata solo mesi dopo): il nuovo giudice istruttore ha ritenuto necessario limitare il diritto alla libertà di espressione degli indagati, senza però opporre resistenze di fronte alla pubblicazione di atti che avallavano la tesi dell’accusa e senza lesinare interviste e dichiarazioni sull’inchiesta. Un’inchiesta sempre più in bilico, dopo le dichiarazioni shock dell’investigatore capo dell’inchiesta, secondo cui il superpentito Pier Antonio Panzeri, mente della presunta corruzione, non sarebbe credibile. Ad assestare un’ulteriore mazzata ci ha pensato il Tribunale di Milano, con l’archiviazione delle indagini a carico di Susanna Camusso, tirata in ballo proprio da Panzeri: le carte trasmesse dal Belgio, secondo la giudice Angela Minerva, contenevano, infatti, «elementi assolutamente generici e non suscettibili di approfondimenti», dato che dalla «vasta indagine» fatta sui conti delle persone coinvolte e dalle dichiarazioni dei testimoni non è emerso «nulla di più». Inoltre, Camusso non è stata mai eletta all’Utic, il sindacato mondiale dei lavoratori alla cui presidenza, secondo Panzeri, avrebbe voluto piazzarla il Qatar per “comprare” il consenso dei sindacati, con lo scopo di ammorbidire le forti critiche per le condizioni dei lavoratori nel Paese arabo. Il tutto in cambio di 50mila euro, di cui - stando agli atti - Camusso non avrebbe saputo nemmeno nulla. Insomma, solo fango sull’ex leader della Cgil. E per evitarlo sarebbe bastata perfino una semplice ricerca su Google.