Il divieto imposto dalla procura belga agli indagati del Qatargate di non parlare con la stampa per mantenere un “clima sereno” «non è conforme ai requisiti legali». E per tale motivo, l’ordinanza del 22 dicembre 2023, che imponeva come nuova esigenza il “bavaglio” agli indagati e agli avvocati, è stata annullata dalla “Chambre des mises en accusation” - la sezione della Corte d’appello che si pronuncia sulle impugnazioni delle decisioni della Camera di consiglio -, la stessa che a maggio dovrà pronunciarsi sulla regolarità degli atti dell’intera inchiesta, messa a serio rischio dall’audio nel quale l’investigatore capo ammette di non credere alle parole del principale accusatore dell’indagine, l’ex europarlamentare Pier Antonio Panzeri. La decisione è arrivata il 14 febbraio, a seguito della richiesta presentata da Maxim Toller, avvocato di Marc Tarabella, membro del Parlamento europeo coinvolto nell’indagine proprio sulla base delle dichiarazioni di Panzeri. Tarabella, così come gli altri indagati, si era visto imporre a fine dicembre, con la terza ordinanza emessa nel giro di quattro mesi, nuove condizioni per non tornare in carcere. Tra le quali, appunto, il silenzio assoluto - suo e del suo avvocato - con la stampa. Una novità assoluta - in spregio alla libertà di espressione e alla presunzione d’innocenza - piombata sugli indagati a seguito delle interviste rilasciate da Eva Kaili (alla quale è stato pure vietato di usare l’espressione “Belgiumgate”) e dall’avvocato di suo marito Francesco Giorgi, Pierre Monville, in prossimità dell’anniversario degli arresti, dopo settimane di articoli che mettevano in discussione la tenuta delle indagini. I giornali più fedeli alla linea della procura avevano provato a riaccendere lo scandalo proprio a ridosso del 9 dicembre, pubblicando nuove notizie - rigorosamente coperte da segreto istruttorio - sul caso. Notizie che, di fatto, erano servite a riattizzare l’indignazione, pur non riguardando praticamente nessun fatto penalmente rilevante. Ma i dubbi sull’inchiesta, ormai più forti delle certezze - anche a seguito delle dimissioni del giudice istruttore Michel Claise per conflitto d’interessi, dati gli affari tra suo figlio e quello di Maria Arena, eurodeputata miracolosamente scampata all’inchiesta -, non si sono spenti, fino a deflagrare con l’audio reso pubblico i giorni scorsi e registrato di nascosto da Giorgi. Da quell’audio emerge non solo la scarsa fiducia della procura nei confronti del “pentito” - di fatto graziato per via delle sue dichiarazioni -, ma anche un’intrusione nella strategia difensiva di Giorgi, spiato in casa mentre discuteva la strategia difensiva con il proprio avvocato.

La Chambre des mises en accusation ha sottolineato un principio banalissimo: se per rimettere in libertà qualcuno non è necessario un controllo periodico di legalità, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una misura di proroga che impone una o più condizioni nuove «il giudice istruttore o il tribunale devono rispettare i requisiti dell’articolo 35, paragrafo 2, della legge del 20 luglio 1990 ed esporre le ragioni che giustificano questa nuova restrizione alla libertà di circolazione». L’ordinanza del 22 dicembre, invece, ha imposto il bavaglio (diretto e indiretto) senza giustificarne la necessità, ammantando il tutto dietro l’esigenza di proseguire l’inchiesta «in un clima sereno». Clima, evidentemente, non intaccato dalla circolazione indiscriminata dei soli atti favorevoli all’accusa - e solo quelli - che continuano a circolare senza problemi su alcuni quotidiani, come Le Soir, i cui giornalisti, nelle scorse settimane, hanno presentato un libro sull’inchiesta, di fatto violando la presunzione d’innocenza degli indagati, sin da subito considerati colpevoli.

Nella sua richiesta, Tarabella aveva evidenziato che «la nuova condizione, così come formulata, gli impedisca di esercitare il suo diritto fondamentale alla libertà di espressione e di difendersi, anche in ambito pubblico, sebbene la restrizione non sia giustificata da nessuno dei criteri dell’articolo 16» della legge sulla detenzione preventiva in Belgio, che prevede misure restrittive in caso di pericolo di fuga, di distruzione delle prove, di reiterazione del reato e di collusione con terzi soggetti. «Il “clima pacifico” non è» tra questi criteri, ha sottolineato l’eurodeputato. Inoltre, la nuova condizione, a suo dire, violerebbe anche l’articolo 57, paragrafo 8, comma 4, del Codice di procedura penale belga, impedendo anche anche al suo avvocato di comunicare con la stampa, «sebbene tale garanzia, prevista dal Codice di procedura penale, gli consenta di garantire i suoi diritti di difesa». Il codice prevede infatti che l’avvocato possa, «quando l’interesse del suo cliente lo richiede, comunicare informazioni alla stampa», nel rispetto della presunzione di innocenza, dei diritti di difesa degli imputati, delle vittime e dei terzi, della privacy, della dignità personale e le regole della professione. «Da questa disposizione si evince che un avvocato può comunicare con la stampa sia quando gli interessi del suo cliente lo richiedono, sia quando è necessario per il suo cliente esercitare i suoi diritti di difesa». Tarabella si dice sorpreso, soprattutto, dal fatto «che questa condizione non sia stata imposta per molti mesi, quando l’indagine era ancora nelle sue fasi iniziali, e che solo alla fine del 2023 il giudice istruttore abbia ritenuto necessario limitare il diritto alla libertà di espressione del richiedente». Un divieto ancora più curioso dal momento che «due giornalisti (quelli di Le Soir, appunto, ndr) hanno appena annunciato che pubblicheranno un libro su “Qatargate” nei prossimi giorni - poi effettivamente pubblicato a fine gennaio, ndr -. Allo stesso modo, la stessa parte pubblica emette comunicati stampa o, attraverso la voce del magistrato “stampa” o del procuratore federale in persona, risponde regolarmente alle interviste relative al caso in questione. Infine, è opportuno sottolineare l’apparente rifiuto di riferire sul caso da parte dell’ex giudice istruttore Michel Claise, durante e dopo il suo intervento nel caso, che continua ad alludervi sulla stampa». A inquinare il clima, secondo la procura, sarebbero solo le tesi difensive. Ma i giudici, questa volta, hanno cancellato tutto con un tratto di penna.