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MARIO MORI - GENERALE E PREFETTO ITALIANO
A volte basta cambiare prospettiva per vedere le cose come stanno davvero. Martedì sera, al Teatro Torlonia di Roma, non è andata in scena la “riscrittura della storia”, come qualcuno vuole farci credere con un pizzico di sarcasmo. È andata in scena, semplicemente, la realtà. Quella nuda e cruda, scomoda per chi su certi teoremi ha costruito carriere e narrazioni mediatiche.
L’occasione era il primo appuntamento del ciclo “Le Verità Sospese”, un’idea di Luca De Fusco curata da Alessandro Barbano e Goffredo Buccini, alla redazione la nostra Simona Musco. Il titolo della serata, “L’onore di un generale”, non lasciava molto spazio all’interpretazione. Sul palco c’era lui, Mario Mori. L’uomo che ha arrestato Totò Riina e che, per ringraziamento, è stato trascinato in un calvario giudiziario durato vent’anni. Ma c’è chi, come Marco Lillo, noto cronista di razza de Il Fatto Quotidiano, ha raccontato la serata con l’amaro in bocca. Ha parlato di un «cerchio perfetto» che si chiude tra applausi e rivincite. Ma forse il punto è proprio questo: quel cerchio non l’ha chiuso il teatro, l’hanno chiuso le sentenze. Definitive. In particolare la Cassazione, che ci dice una cosa chiara: la famosa Trattativa Stato- Mafia, quella con la T maiuscola, non è mai esistita.
Durante la serata si è parlato di “trattativa fantasma”. Un termine che fa storcere il naso ai sostenitori della dietrologia a tutti i costi, quelli che vedono complotti ovunque. Eppure, se si ha la pazienza di guardare le carte quelle vere, non quelle sventolate nei talk show - si capisce che di fantasmi si trattava davvero. Ricordate il “Papello”? Quella lista di richieste che Riina avrebbe presentato allo Stato? Per anni ci hanno detto che era la pistola fumante. Peccato che l’intera impalcatura si reggesse sulle spalle, o meglio sulle fotocopie, di Massimo Ciancimino. Un personaggio che ha consegnato ai magistrati documenti manipolati, fotocopie con post- it incollati alla bell’e meglio per cercare di retrodatare eventi e dare un senso a una storia che non ne aveva.
Una “patacca” confezionata male, che è stata presa per oro colato per troppo tempo. Ciancimino junior, che oscillava tra dichiarazioni contraddittorie e documenti dubbi, è stato il cardine di un’accusa che ha tenuto in scacco pezzi delle istituzioni. E la “trattativa” con Don Vito Ciancimino? Fu semplicemente un’iniziativa personale degli ex Ros, in tempo emergenziale visto che si era appena scatenata la seconda strage di mafia in Via D’Amelio. Un’iniziativa che è sempre stata una prerogativa delle forze di polizia. D’altronde ci viene in aiuto, visto che oggi è di attualità con l’audizione del procuratore Salvatore De Luca in commissione antimafia, i famosi verbali di luglio 1992 al Csm.
Ecco cosa disse l’allora pm Guido Lo Forte a proposito di come nascono i pentiti: «Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi». Uno degli argomenti preferiti da chi storce il naso di fronte alla riabilitazione di Mori è la questione del 41 bis. La narrazione è sempre la stessa: lo Stato avrebbe ammorbidito il carcere duro per fare un favore ai boss e fermare le stragi. Anche al teatro si è toccato il tema, con Barbano che ha espresso le sue perplessità sull’efficacia di certe misure. Ma la verità giudiziaria e storica è molto più semplice e meno “noir” di come viene dipinta. La mancata proroga del 41 bis per oltre trecento detenuti nel 1993 ( solo una minuscola percentuale erano mafiosi) non fu un cedimento a Cosa Nostra. Fu una scelta tecnica e obbligata dell’allora ministro Giovanni Conso, dettata da una sentenza della Corte Costituzionale depositata a luglio di quell’anno. La Consulta aveva detto chiaramente che i rinnovi non potevano essere collettivi e “a pioggia”, ma dovevano essere valutati caso per caso.
Non c’era nessun patto scellerato. E mentre al Torlonia si ricordava come Mori e il capitano De Donno - presente anche lui in sala - abbiano agito sempre nell’interesse dello Stato, qualcuno ancora oggi fatica ad accettare che quel teorema sia crollato sotto i colpi della Cassazione. Ed è questo che dà fastidio. Che non si possa più giocare con i “sembra”, con i “forse”, con i teoremi suggestivi. Alla fine della serata, quando Anna Ammirati ha posto quelle domande che sembravano “scese dal cielo” sulla trattativa e sui carabinieri, la risposta è arrivata chiara da De Fusco: «Non è più in discussione, le sentenze ormai ci sono».
Gli applausi al Torlonia non erano per riscrivere la storia. Erano per un uomo di 85 anni che ha servito lo Stato e che ha dovuto attendere decenni per sentirsi dire, in un’aula di tribunale e ora su un palco, quello che sapeva fin dall’inizio. Il teatro, questa volta, ha fatto solo da cornice. La verità era l’unica protagonista, e non aveva bisogno di copione.


