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PALERMO VIA D'AMELIO STRAGE GIUDICE BORSELLINO MAFIA GIUSTIZIA ATTENTATO AUTOMOBILI CARBONIZZATE ESPLOSIONE
Non è paragonabile al pentito Gaspare Spatuzza, ma - come sottolinea il Gip Santi Bologna - è ridicolo anche paragonarlo a Scarantino, il pupo che fu usato per depistare le indagini su Via D’Amelio. Maurizio Avola, autoaccusandosi e coinvolgendo figure apicali catanesi come Aldo Ercolano e Marcello D'Agata, non andrà a processo per la strage di Via D'Amelio. Ma il suo racconto pur giudicato complessivamente inattendibile contiene “dettagli inediti” e “spunti investigativi concreti” che la Procura di Caltanissetta dovrebbe verificare con accertamenti tecnici mirati. Avola, il collaboratore di giustizia catanese, non è prova processuale sufficiente, ma neppure un capitolo da chiudere.
LA PISTA CATANESE NON CHIUSA
Il giudice Santi Bologna, del Tribunale di Caltanissetta, ha firmato l’archiviazione delle posizioni legate alle dichiarazioni di Avola. Una decisione che arriva dopo mesi di valutazioni sulle sue autoaccuse e sulle accuse rivolte a presunti complici, boss catanesi. Il quadro che ne esce è duplice: da un lato, la debolezza del racconto e l’impossibilità di sostenere un processo; dall’altro, la traccia di piste tecniche e documentali che meritano di essere riprese, soprattutto sul fronte di Via D’Amelio.
Tra queste, un nodo che il Gip considera particolarmente significativo e ancora non esplorato fino in fondo: l’intercettazione del 15 marzo 1993 nel covo di via Ughetti e le parole pronunciate da Antonino Gioè – poi suicidatosi nel carcere di Rebibbia - su “quei quattro- cinque picciotti” di Catania “a livello di terroristi”, uomini “che ne sanno di queste cose” e con cui “io ci sono stato insieme in cose particolari”. Gioè non parla in termini retorici; loda capacità operative, chiama in causa “cose particolari” e suggerisce una condivisione di pratiche con uomini catanesi. È un pezzo di tessuto che, se teso e verificato, può esporre i fili che collegano Palermo e Catania nelle fasi operative delle stragi e forse anche in altri episodi.
Maurizio Avola non è un nome marginale. Ex uomo d’onore catanese, killer professionista, già condannato e in passato collaboratore di giustizia, è stato fondamentale per processi importanti, compreso l’omicidio del giornalista Beppe Fava. Ultimamente è stato considerato fondamentale per la riapertura dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Era rimasto ai margini per anni, prima di tornare con dichiarazioni su Via D’Amelio che, soprattutto con il libro scritto da Michele Santoro e Guido Ruotolo, hanno scatenato numerose polemiche, a partire dalla procura nissena stessa. Nei suoi verbali, parla di trasporti di esplosivo, di riunioni preparatorie e di un coinvolgimento di uomini della provincia di Catania anche nella fase logistica della strage di Via D’Amelio. Il giudice ripercorre con precisione la progressione delle sue dichiarazioni: inizialmente parziali, poi ampliate nel tempo, con aggiunte e correzioni successive. Un percorso definito “anacronistico” rispetto alla collaborazione originaria. Avola spiega i ritardi con la paura e la diffidenza maturate nel tempo, ma per il Gip questo non basta a giustificare il divario fra le prime confessioni e i nuovi, più complessi racconti.
LE RAGIONI DELL’ARCHIVIAZIONE
Il cuore del decreto sta in tre parole: assenza di riscontri esterni e imprecisione nei suoi racconti. Tutto ciò che Avola ha raccontato - dai sopralluoghi alla quantità di esplosivo, dai ruoli dei presunti partecipanti fino ai collegamenti con la mafia catanese - non trova conferma autonoma. Le perizie e i verbali d’epoca, secondo il Gip non coincidono con le sue versioni. Il giudice annota anche le contraddizioni: variazioni su date, luoghi, ruoli e modalità. Versioni che cambiano nel tempo e passaggi in cui Avola afferma di “non ricordare” elementi fondamentali.
A ciò si aggiungono le intercettazioni citate nel decreto, che non dimostrano alcuna eterodirezione, ma lasciano aperti dubbi su reticenze e omissioni. L’immagine che emerge è quella di un collaboratore che alterna ricordi veri e ricostruzioni imprecise, con un grado di affidabilità non sufficiente per sostenere un’accusa. Sul piano giuridico, il giudice applica la regola introdotta con la riforma Cartabia: si può procedere solo se esiste una “ragionevole previsione di condanna”. Qui quella soglia non è raggiunta. Anche ammesso che alcune dichiarazioni fossero vere, mancano prove esterne per sorreggerle in dibattimento. Ed è vero. Il collaboratore catanese ha un problema non da poco. «Avola – scrive il giudice – è un dichiarante estremamente impreciso», che «non riesce a ricordare nemmeno l'ordine cronologico dei luoghi visitati durante il sopralluogo del 29 luglio 2020», a soli quattro anni di distanza. Se questa è la qualità del ricordo recente, «è assai arduo poter fare affidamento sulla capacità ricostruttiva di Avola in relazione a fatti verificatisi nel 1992».
GLI APPROFONDIMENTI DA FARE
Non solo. C'è poi il tema della tardività. Solo il 31 gennaio 2020, durante un interrogatorio inizialmente dedicato ad altro, sbotta improvvisamente con la confessione integrale sul suo ruolo in Via D'Amelio. Perché prima no? Avola fornisce spiegazioni che secondo il Gip sono poco convincenti: «Durante la mia collaborazione volevo mantenere un livello basso», oppure «volevo dirlo da uomo libero» ( essendo uscito dal programma di protezione). Ma il giudice obietta: se davvero volevi parlare da libero, perché hai taciuto quando sei stato sentito nel processo contro Matteo Messina Denaro (aprile 2019) proprio per la strage di Via D'Amelio? «Non ero pronto ancora per parlare», risponde Avola. Eppure, nello stesso esame, parla dell'omicidio Scopelliti. Incongruenze che il Gip definisce «elementi che incidono assai negativamente sulla credibilità generale del dichiarante». Avola ammette candidamente di avere una collaborazione «a rate».
Alla domanda se ha detto tutto, risponde testualmente: «Non ho detto bugie, ma non ho detto mai tutta la verità, e forse neanche adesso». Un collaboratore di giustizia che rivendica il diritto di dosare le informazioni è, per definizione, inaffidabile. Nel contempo, l'archiviazione non chiude il caso. Anzi, lo riapre. Il Gip dedica un intero paragrafo a elencare «i limiti attuali nella ricostruzione della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio e gli sviluppi possibili».
Un elenco che vale come road map investigativa: perizia sulla collocazione dell'esplosivo, esami sui frammenti estratti dai cadaveri, esperimento giudiziale sul carico della 126, le due batterie e l'antennino, come sottolineato anche nella memoria di Fabio Trizzino, avvocato dei figli di Borsellino. In definitiva, l’atto di archiviazione non assolve e non condanna. Sospende. Riconosce l’inattendibilità di Avola, ma invita la Procura a non buttare via il bambino con l’acqua sporca. Avola ha fallito come testimone. Ma forse ha aperto una porta. Starà agli inquirenti decidere se varcarla.


