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GIUSTIZIA TRIBUNALE PROCESSO GIUDICE MARTELLETTO
Separare le carriere: come no, sarebbe necessario. Sarebbe utile ai cittadini. Ma chissà se la riforma entrerà in vigore, chissà se gli elettori si convinceranno che è indispensabile impedire al pm di controllare la carriera di colui, il giudice, di fronte al quale il pm stesso dovrebbe essere solo una “parte”. Chissà se una così semplice e geometrica evidenza si farà spazio nella matassa delle polemiche sul referendum.
Ma certo, che il sistema oggi non possa più reggere, che la commistione ordinamentale fra giudicanti e inquirenti abbia raggiunto il punto di non ritorno, lo dimostrano tanti esempi. Viene da pensare ai casi di difesa interrotta, alle “cross examination” in cui il giudice si sostituisce ai colleghi della Procura e cerca di estrarre dai testi il necessario a scrivere una sentenza di condanna. Ma ci sono episodi anche più clamorosi. Come i paradossali incroci fra pm e magistrati del Tribunale di Palemo nel periodo in cui a presiedere la sezione “Misure di prevenzione” siciliana era Silvana Saguto, oggi in carcere a Rebibbia, dove sconta una pena di 7 anni e 11 mesi.
Basta scorrere le intercettazioni ambientali con cui la Procura di Caltanissetta fece emergere i reati commessi dai colleghi del Tribunale di Palermo per rendersi conto delle sovrapposizioni paradossali fra giudici e accusatori. Al punto che un magistrato del Tribunale arriva a dire, in un brano di quegli ascolti, “domani dico al pubblico ministero che deve chiedermi di acquisire quelle perizie al nostro procedimento” in modo da poter “confiscare tutto”.
Sembra incredibile, ma qui, siamo a Palermo nel 2015, i giudici eterodirigono le mosse dei loro colleghi della Procura, o almeno manifestano l’intenzione di farlo, in modo da pervenire a una decisione preordinata. Altro che separazione: siamo all’inversione delle carriere, alla supplenza del giudicante nei confronti del requirente.
È il 17 giugno di dieci anni fa. Nella sezione “Misure di prevenzione” palermitana si confrontano la dirigente dell’ufficio, Silvana Saguto appunto, e uno dei giudici suoi sottoposti, Fabio Licata. Discutono di un procedimento di prevenzione famoso: riguarda la seconda generazione della famiglia Cavallotti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno un tempo leader nel campo della metanizzazione in Sicilia, accusati senza prove di associazione mafiosa, poi assolti con formula piena nel processo penale eppure perseguitati, anche in seguito, da sequestri e confische (al punto da aver presentato un ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’uomo sul quale si attende la sentenza a breve).
All’epoca, nel giugno 2015, i periti nominati dal Tribunale avevano da poco sollecitato una proroga ai suddetti giudici Saguto e Licata, giacché gli elementi raccolti non sembravano ancora sufficienti a sorreggere una richiesta di confisca da parte della Procura (nel frattempo tutti i beni di Pietro Cavallotti e dei suoi familiari erano comunque sotto sequestro, con lauti compensi agli amministratori giudiziari). I giudici Saguto e Licata, però, sono preoccupati da un eventuale ulteriore allungamento dell’iter, tanto che la presidente della sezione “Misure di prevenzione” a un certo punto dice “domani finiamo sulle Iene”, nel timore che i Cavallotti denunciassero alla trasmissione di Italia 1, come già fatto in passato, l’incredibile protrarsi di un sequestro già evidentemente ingiusto, vista l’assoluzione dei loro padri dalle accuse di mafia.
La trascrizione dei colloqui captati su ordine della Procura nissena coglie dunque il giudice Licata rivolgersi così alla propria dirigente, Saguto: “Domani su Cavallotti sollecitiamo il deposito (della perizia, ndr)... tanto ormai finiu”, cioè è finita, “ci confischiamo tutto”. Così, a prescindere dalle risultanze della perizia. Ma al di là del metodo giudiziario sbrigativo, per così dire, colpisce la tecnica acceleratoria immaginata dai due giudici: il pm proponente Dario Scaletta, prefigura il giudice Licata, “ci fa il sollecito”. Cioè: l’accusatore dovrà lasciarsi pilotare dal magistrati giudicanti e sollecitare l’acquisizione di documenti che i giudici stessi ritenevano utili per la confisca.
“Inutile che piccano, capisci?”, inutile, dice Licata alla sua dirigente Saguto, che i periti pignoleggino e chiedano la proroga della perizia. Saguto ne conviene: “Basta, basta”. E il suo collega Licata rafforza il concetto: “Basterebbe quello che c’è, ti dico: la perizia è pure superflua. Piuttosto, dobbiamo ordinare la trasmissione delle consulenze Italgas e Gasnatural (perizie relative ad altri procedimenti, ndr), acquisirle al processo Cavallotti. Se non lo fa, quel (insulto irriferibile, ndr) di Scaletta (sempre il pm, ndr), domani glielo facciamo chiedere a lui. Gli diciamo: Dario (Scaletta, ndr), ora tu mi fai la cortesia, chiedi l’acquisizione delle consulenze Gasnatural e Italgas nel procedimento Cavallotti”.
Quindi: non è il pm che mette insieme gli elementi a supporto delle richieste di confisca, no. I giudici sono già decisi a confiscare tutto (ma saranno poi smentiti, con un dissequestro totale, dai colleghi subentrati loro dopo l’apertura dell’indagine sul “sistema Saguto”). E così sono gli stessi giudici che “dettano” al pm le azioni da compiere, le perizie da acquisire, in un vortice di scambi di ruolo da mal di testa.
Signori, separare le carriere è il minimo. Di questa assurda chiacchierata palermitana di dieci anni fa, in sé irrilevante sul piano penale, sappiamo perché Saguto e Licata commisero, secondo sentenze passate in giudicato, diversi reati, quando già erano indagati e intercettati dai loro colleghi di Caltanissetta. Non sappiamo se quella confusione palermitana fra giudicanti e requirenti fosse un unicum, o se invece se ne verificano spesso, al riparo dalle microspie. Ma nel dubbio, questo è chiaro, molto meglio separarle, le carriere.


