Come l’anno scorso: stessa spiaggia, la legge di Bilancio, stesso mare, l’attacco del Mef alla giustizia e agli avvocati. Con la Manovra per il 2025 gli uffici del ministro Giancarlo Giorgetti avevano pensato bene di subordinare il prosieguo delle cause civili al versamento integrale del contributo unificato, per poi ripiegare, dopo l’interlocuzione fra avvocatura e governo, sulla richiesta dell’importo minimo di 43 euro (“requisito” finito ora nel mirino della Cassazione). Stavolta il colpo nei confronti delle libere professioni e di quella forense in particolare è mirato con precisione ancora più chirurgica.

È di poche ore fa la formulazione, nell’emendamento con cui l’Esecutivo intende blindare la legge di Bilancio, di una misura che addirittura preclude il pagamento di prestazioni professionali rese nei confronti della pubblica amministrazione. «Può sembrare incredibile», dice al Dubbio il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco, «ma è davvero così. A dispetto di quanto la nostra Carta costituzionale sancisce all’articolo 36, secondo il quale ciascun lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità dell’opera svolta, e deve dunque essere sempre pagato. Ebbene, il governo ritiene che, per i professionisti si possa fare un’eccezione: potranno non essere pagati».

Sembra uno scherzo. Non lo è. «È l’ultima versione dell’articolo 129 comma 10 inserito nel ddl di Bilancio, peggiorativo, ed era difficile, rispetto al testo iniziale, già di per sé illegittimo», osserva Greco. «Secondo la modifica predisposta dall’Esecutivo, “il regolare adempimento degli obblighi fiscali e contributivi da parte dei liberi professionisti che rendono prestazioni nei confronti delle amministrazioni pubbliche” o anche di, come si legge testualmente, “altri soggetti con compensi a carico dello Stato, è condizione per il pagamento di compensi da parte delle medesime amministrazioni”. E come recita ancora la norma», prosegue il presidente del Cnf, «il libero professionista deve produrre “la documentazione comprovante la regolarità fiscale e contributiva unitamente alla presentazione della fattura”. Nell’ultima formulazione», specifica Greco, «la novità è appunto l’inciso in cui la subordinazione del pagamento alla regolarità contributiva e fiscale è estesa ai professionisti che garantiscono, in favore dei meno abbienti, prestazioni a carico dello Stato. Credo sia evidente l’obiettivo dell’ultimo ritocco: siamo noi avvocati. Di fatto si statuisce che un difensore può assumere l’onere di assistere in un processo le persone in condizioni di difficoltà, dopodiché quello stesso difensore non riceverà alcun compenso per il lavoro svolto. Una norma chiarissimamente illegittima, in evidente contrasto con l’articolo 36 della Costituzione».

Difficile dar torto al presidente Greco. E anzi, si intuisce la difficoltà in cui rischia di trovarsi persino il Presidente Sergio Mattarella: un Capo dello Stato non può rimandare al Parlamento una legge di Bilancio senza condannare il Paese all’esercizio provvisorio, ed è dunque costretto a promulgare la Manovra pur pregiudicata da un vizio d’illegittimità. Lo sconcerto, del Cnf e in generale dell’avvocatura, deriva anche dalla “escalation” a cui l’Esecutivo, e il ministero dell’Economia in particolare, hanno dato vita.

Secondo l’idea iniziale si sarebbe dovuto introdurre un meccanismo di compensazione, assai meno suscettibile di obiezioni: in pratica, il libero professionista destinatario di incarichi pubblici avrebbe mantenuto il diritto al compenso, dal quale sarebbero state scalate le eventuali pendenze fiscali e contributive. Ma si è rapidamente passati all’iperbole di una Pa legittimata a non pagare affatto i professionisti, e addirittura a non corrispondere, agli avvocati in particolare, quanto dovuto per le prestazioni rese in favore dei cittadini più in difficoltà, e cioè per difese d’ufficio e patrocinii a spese dello Stato.

In una nota, il Cnf ribadisce la propria «forte contrarietà» alla misura, definita «vessatoria e discriminatoria, critica per i ceti professionali», in quanto «viola il principio costituzionale di eguaglianza e la direttiva europea 2011/7/UE sui ritardi di pagamento». Una norma, obietta l’istituzione forense, che «crea una disparità ingiustificata tra chi opera con clienti privati e chi lavora con la Pa, prevedendo il blocco dei compensi anche in presenza di irregolarità solo contestate o non definitive». E già, perché come segnala al Dubbio il presidente del Cnf Greco, «a non essere pagato sarà anche il professionista destinatario di una cartella esattoriale ma convinto di poter efficacemente impugnare la contestazione, la cui pendenza basterà dunque a bloccare il pagamento da parte dell’amministrazione pubblica».

Sempre nel comunicato diffuso dal Consiglio nazionale forense, viene definito «ancora più grave l’emendamento del governo, presentato nonostante la recentissima condanna della Cedu all’Italia per i ritardi nei pagamenti agli avvocati nei casi di patrocinio a spese dello Stato, che estende la norma addirittura ai compensi “a carico dello Stato”». È così che si rischia di «paralizzare l’istituto, con danno diretto per i cittadini più fragili. Il Cnf», chiude la nota, «sta valutando tutti i profili di incostituzionalità della norma e rinnova l’invito al governo a ritirarla».

Non si può tacere, come spiega Greco, il paradosso più perverso che si scorge verso questa misura, vale a dire «l’assurda circostanza per cui a non poter certificare la regolarità contributiva e fiscale saranno proprio quegli avvocati, soprattutto giovani, costretti ad attendere anni per ricevere i compensi dovuti per difese e patrocinii a spese dello Stato svolti in precedenza, e che, proprio per questi ritardi, si trovano in un tale affanno economico da dover appunto ritardare i versamenti a Cassa forense e al fisco».

Sembra la barzelletta di Cattivik, il protagonista del fumetto “Superciuk” che rubava ai poveri per donare ai ricchi: il professionista che lavori per grandi aziende private non subirebbe conseguenze, infatti, da eventuali ritardi nel versamento di tasse e contributi. «È un danno per gli stessi cittadini in difficoltà economiche», osserva Greco, «che rischiano di non trovare avvocati disposti ad assumere il patrocinio a spese dello Stato. Si tratta di un colpo inferto agli avvocati più giovani: sono soprattutto loro ad assumere la difesa dei meno abbienti, attività che spesso costituisice la sola stabile fonte di reddito, per questi professionisti».

Estendere il già incostituzionale articolo 129 della Manovra proprio a chi assicura la tutela dei più deboli sembra persino la reazione indispettita alla bacchettata della Cedu. «Confidiamo davvero che l’Esecutivo torni sui propri passi», conclude Greco, «ma intanto ci prepariamo a invocare l’incostituzionalità di questa misura inserita, almeno per ora, nel ddl di Bilancio».