Assolto «per essere rimasti esclusi gli addebiti disciplinari». Si è concluso così, questa mattina, il “processo” a Cosimo Maria Ferri, finito davanti alla Sezione disciplinare del Csm per aver preso parte all’incontro all’hotel champagne di Roma, il 9 maggio del 2019, quando, con Luca Palamara, Luca Lotti e cinque membri togati del Consiglio superiore della magistratura, si discusse della nomina del procuratore di Roma. La decisione è stata presa alla luce dell’inutilizzabilità delle intercettazioni estratte dal trojan inoculato sul telefonino di Palamara, inutilizzabilità stabilita dalla Camera a dicembre scorso e rispetto alla quale il Csm non ha accolto la richiesta di sollevare un nuovo conflitto di attribuzione davanti alla Consulta, avanzata dalla procura generale della Cassazione. Che così ha solo potuto chiedere l’assoluzione, essendo il procedimento basato esclusivamente su quelle intercettazioni. L’accusa era quella di aver influenzato, in maniera occulta, il funzionamento della Quinta commissione del Csm, quella che si occupa delle nomine, violando i doveri di correttezza e tenendo un comportamento scorretto nei confronti dei magistrati che avevano presentato domanda per la procura di Roma. Un atteggiamento, il suo, che avrebbe condizionato, potenzialmente, l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste.

Il no della Camera

A dicembre, la Camera aveva ribadito quanto già affermato nella sua precedente pronuncia del 2022: il Csm, aveva spiegato il deputato di FI Pietro Pittalis nella sua relazione, non avrebbe, in primo luogo, fornito adeguata motivazione circa l’effettiva «necessità» di utilizzare le intercettazioni, dal momento che dalla stessa richiesta avanzata da Palazzo dei Marescialli emergeva come le incolpazioni si basassero «anche su altri elementi di prova». Il che significa, spiegava Pittalis, che quelle captazioni non rappresentavano «una fonte probatoria assolutamente indefettibile nel procedimento in corso». In secondo luogo, nella richiesta del Csm «non sembra per nulla compiuto quel bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco auspicato dalla Consulta anche nell’ottica della leale collaborazione tra poteri».

La Corte costituzionale, dal canto suo, aveva parzialmente dato ragione al Csm, definendo quelle a carico di Ferri intercettazioni casuali e rispedendo gli atti alla Camera dopo il suo primo no. Ma quella sentenza si è tinta di giallo, dopo le parole pronunciate da uno dei giudici costituzionali di quella pronuncia, ovvero Nicolò Zanon. Nel corso della presentazione del libro di Alessandro Barbano dal titolo “La gogna. Hotel Champagne la notte della giustizia italiana”, Zanon spiegò infatti che la sentenza della Consulta fu pronunciata «rovesciando» la Costituzione per evitare di sconfessare la Cassazione e la sezione disciplinare del Csm sulla famigerata notte dell’Hotel Champagne. Tanto che il relatore, Franco Modugno, si rifiutò di sovvertire i principi costituzionali e di scrivere una sentenza diametralmente opposta a quella redatta, poco prima, nel caso che riguardava Matteo Renzi. Sulle clamorose parole di Zanon intervenne poi la stessa Corte, che tentò di smussare la polemica, ribadendo la bontà delle proprie azioni e parlando di «rappresentazione distorta delle ragioni sottese alla decisione» sul caso Ferri.

La presunta casualità delle intercettazioni

Ma il vero problema è la sostenibilità delle affermazioni della Consulta, secondo cui Ferri fu intercettato casualmente. Il nome del deputato, infatti, compare 341 volte nelle varie richieste di proroga delle captazioni, delle quali 107 in una sola richiesta antecedente la cena all’Hotel Champagne del 9 maggio 2019, a partire da febbraio. Ed è certo, come risulta dalla dichiarazione del maresciallo della Guardia di Finanza Fabio Del Prete, ascoltato come testimone nel procedimento disciplinare a carico degli ex consiglieri del Csm presenti a quella cena, che «la sua identificazione avviene almeno a partire dal 12 marzo 2019». Ciò, secondo la difesa, avrebbe reso Ferri, «insieme a Palamara, l’oggetto pressoché esclusivo delle attenzioni dei pm perugini». Tanto che oltre alle intercettazioni, il fascicolo includeva anche pedinamenti, fotografie e rapporti sulla toga prestata alla politica.

La sentenza

La Camera ha dunque creduto alla linea difensiva. E il Csm ha chiuso la questione, non senza il rammarico della procura generale - rappresentata dai sostituti pg Pasquale Fimiani e Simone Perelli - che valuterà se impugnare davanti alle Sezioni Unite la sentenza con riferimento al mancato sollevamento di un nuovo conflitto d’attribuzione. Dal canto suo, Luigi Antonio Paolo Panella, difensore di Ferri, aveva chiesto l’estinzione del procedimento disciplinare per decorso dei termini. E ieri, invece, si è limitato ad associarsi alla richiesta della procura generale, ritrovatasi senza armi contro l’ex deputato renziano. La sezione disciplinare, prima di chiudere il dibattimento, aveva invitato le parti ad ascoltare nuovi testimoni. La pg aveva indicato nella sua lista testi due finanzieri, che avrebbero dovuto spiegare le modalità con cui erano state effettuate le intercettazioni. Ma alla luce dell’inutilizzabilità delle stesse, l’accusa ha rinunciato alla loro audizione. Così come ha fatto Panella, pronto a portare a Palazzo dei Marescialli i componenti della passata consiliatura del Csm, proprio per spiegare che nessuno era stato condizionato nello svolgimento del proprio incarico. «Sono soddisfatto - ha commentato al Dubbio il legale -, perché ho sempre ritenuto infondate le accuse nei confronti del dottor Ferri. Chiusa questa vicenda, il mio assistito non ha più alcun addebito. Ora sono due (dopo quella sul caso del giudice Franco, che Ferri accompagnò da Berlusconi, ndr) le sentenze che escludono gli addebiti del merito e che hanno chiarito che i fatti, semplicemente, non sussistono».