La recente pronuncia della Prima Sezione penale della Cassazione del 20 giugno 2025, n. 23723, sul cosiddetto “daspo urbano”, offre l’occasione per una riflessione critica su una delle tensioni più profonde del nostro sistema giuridico: l’applicazione asimmetrica delle garanzie costituzionali in base al diritto fondamentale coinvolto. Mentre, in materia di libertà personale, la giurisprudenza impone un controllo giurisdizionale pieno, effettivo e sostanziale, quando si tratta della libertà economica e d’impresa lo stesso controllo si assottiglia fino a ridursi, spesso, a un sindacato meramente formale, deferente verso l’amministrazione.

Il caso del daspo urbano, oggetto della sentenza n. 23723/ 2025, è emblematico. La Suprema Corte ha chiarito che l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, in quanto incidente sulla libertà personale, richiede un sindacato giurisdizionale che non si limiti alla legalità formale del provvedimento prefettizio. Il giudice è tenuto a verificarne la coerenza, la proporzionalità, la motivazione logica e la reale giustificazione, in ossequio all’articolo 13 Cost. e ai principi di ragionevolezza e necessità.

Tuttavia, questa postura garantista sembra dissolversi quando il baricentro si sposta sulla libertà economica. In tema di certificazioni e comunicazioni antimafia, la giurisprudenza amministrativa (e, in misura non trascurabile, anche quella della Corte di Cassazione) adotta da tempo un paradigma di controllo giurisdizionale marcatamente deferente. L’informativa prefettizia antimafia è ritenuta legittima sulla base di una prognosi di infiltrazione mafiosa formulata secondo il criterio del “più probabile che non”, mentre il sindacato del giudice amministrativo si limita, nella prassi, alla verifica della manifesta illogicità, irragionevolezza o travisamento dei fatti.

La sentenza del Consiglio di Stato n. 4716/ 2024 è esemplare: il giudizio dell’autorità prefettizia viene descritto come discrezionale, induttivo, basato su elementi sintomatici e su un ragionamento probabilistico, e il sindacato giurisdizionale viene confinato alla mera verifica della non arbitrarietà. Il risultato è una forma di giustizia che accetta l’idea che un diritto fondamentale (quello d’impresa, di iniziativa economica e, indirettamente, al lavoro) possa essere compresso senza un controllo sostanziale sull’esercizio del potere pubblico. Il contrasto diventa ancora più stridente se si considera che le conseguenze dell’interdittiva antimafia possono risultare ben più devastanti di una misura limitativa della libertà di movimento: l’esclusione dai rapporti con la pubblica amministrazione, l’impossibilità di stipulare contratti pubblici o di accedere a finanziamenti o autorizzazioni, si traducono in una vera e propria morte civile dell’impresa.

Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 7728/ 2024, ha chiarito che il sindacato può estendersi alla verifica dell’esistenza dei fatti e della ragionevolezza della prognosi, ma anche qui il giudice non si spinge oltre: non discute i presupposti logici dell’intero impianto normativo e si astiene da una valutazione realmente penetrante della discrezionalità amministrativa.

In senso critico si è mosso, invece, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana ( sent. n. 586/ 2024), che ha sottolineato la necessità di un sindacato “effettivo e penetrante”, esteso anche al criterio tecnico- giuridico utilizzato dalla Prefettura. Ma si tratta, al momento, di un orientamento ancora isolato. Questa disparità di trattamento si riflette anche nel diverso tenore delle decisioni delle Sezioni Unite civili della Cassazione, come la sentenza n. 28682/ 2024, che giustifica il sindacato debole sulla base della natura preventiva e della necessità di flessibilità amministrativa nella lotta alla mafia. Ma la Costituzione non ammette gerarchie tra diritti fondamentali: l’articolo 13 e l’articolo 41 devono essere interpretati e tutelati con eguale rigore, anche quando ciò implica una valutazione scomoda o impopolare dell’operato amministrativo.

L’idea che esista un diritto fondamentalmente più meritevole di tutela giurisdizionale di un altro è contraria al disegno costituzionale. Una democrazia liberale si misura non solo nella tutela delle libertà individuali, ma anche nella capacità di garantire eguale protezione per chi esercita una funzione economica, produttiva, sociale. Accettare che il giudice possa intervenire a tutela della libertà personale ma debba fermarsi sulla soglia dell’economia significa istituzionalizzare una giustizia a geometria variabile.

La lezione della sentenza sul daspo urbano è chiara e deve valere erga omnes: nessuna limitazione di un diritto fondamentale può essere sottratta a un controllo giurisdizionale effettivo, pieno, sostanziale. Non esistono diritti costituzionali di serie A e diritti di serie B, così come non esistono emergenze che giustifichino l’abdicazione della giurisdizione al proprio ruolo di custode delle libertà. In un tempo in cui l’efficienza amministrativa rischia di prevalere sulla legalità, riaffermare questo principio è un dovere democratico, prima ancora che giuridico.