La Suprema Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio una sentenza di prescrizione dichiarata erroneamente, disponendo l’assoluzione dell’imputato con la formula piena “perché il fatto non sussiste”. Il caso riguarda un legale rappresentante di una società, accusato di indebita percezione di erogazioni pubbliche per un finanziamento ricevuto nel 2011, poi ritenuto irregolare per alcune voci di spesa, tra cui quelle relative a consulenze e personale addetto alla ricerca.

Il Tribunale, escusse solo le prove a carico, aveva interrotto il dibattimento e dichiarato estinto il reato per prescrizione il 7 maggio 2019. La Corte d’appello di Trieste aveva confermato la decisione, affermando che, in mancanza di una rinuncia alla prescrizione, non era possibile pronunciare l’assoluzione nel merito in presenza di un quadro probatorio definito “dubbio”.

Nel ricorso presentato in Cassazione, la difesa ha sostenuto che il giudice di primo grado avrebbe dovuto completare l’istruttoria, ascoltando anche i testimoni a discarico. I dipendenti dell’azienda e alcuni consulenti, secondo quanto documentato, avrebbero fornito elementi decisivi per escludere la sussistenza del reato. Inoltre, si è fatto rilevare che l’unico teste a carico, un maresciallo della Guardia di Finanza, aveva rilasciato valutazioni soggettive ritenute non utilizzabili ai sensi degli articoli 191 e 194 del codice di procedura penale. Al di là delle valutazioni probatorie, la Cassazione ha evidenziato un errore processuale decisivo: il reato, alla data della sentenza di primo grado, non era ancora prescritto. L’interruzione del processo intervenuta nel 2017 per un legittimo impedimento aveva sospeso il termine prescrizionale, che sarebbe maturato solo nell’agosto 2019.

Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito hanno applicato una regola processuale non pertinente, ovvero l’articolo 129, comma 2, codice procedura penale, che consente di assolvere nel merito solo in presenza di “evidenza” dell’innocenza. Tuttavia, questa norma si applica esclusivamente quando il reato è effettivamente prescritto. In mancanza della prescrizione, la regola applicabile resta quella generale: in caso di dubbio sulla responsabilità, l’imputato deve essere assolto. Per la Cassazione, la dichiarazione di estinzione ha quindi prodotto un effetto in malam partem, privando l’imputato del diritto a una piena assoluzione nel merito che avrebbe meritato sulla base degli atti già presenti in giudizio.

Il principio affermato nella decisione ha rilievo anche per il diritto alla prova: il giudice non può interrompere l’istruttoria prima di escutere i testimoni della difesa se intende fondare la decisione su un presunto esaurimento del materiale probatorio. Né può subordinare il diritto all’assoluzione alla rinuncia espressa alla prescrizione da parte dell’imputato. La regola del ragionevole dubbio - evidenzia la Cassazione - è parte integrante del principio del giusto processo, sancito dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e deve prevalere sul solo interesse alla durata ragionevole del procedimento. La sentenza, nel ribadire la centralità della presunzione di innocenza e del contraddittorio, può essere considerata un punto fermo per tutti i procedimenti in cui si rischia che l’economia processuale venga anteposta alle garanzie fondamentali dell’imputato.

La sentenza, pertanto, chiarisce che in presenza di dubbi rilevanti sulla responsabilità, anche accertati dal giudice, l’unica via corretta è l’assoluzione piena. Rinviare l’accertamento della verità alla scelta (non obbligatoria) dell’imputato di rinunciare alla prescrizione non è compatibile con il nostro ordinamento né con i principi del diritto dell’Unione europea. Per queste ragioni, la Suprema Corte ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Trieste, chiudendo il procedimento con una pronuncia definitiva: il fatto non sussiste.