La sentenza della Corte costituzionale sul caso Cosimo Ferri fu pronunciata «rovesciando» la Costituzione per evitare di sconfessare la Cassazione e la sezione disciplinare del Csm sulla famigerata notte dell’Hotel Champagne. A fare la clamorosa rivelazione è Nicolò Zanon, che ha svestito i panni del giudice costituzionale da circa un mese.

E che racconta, per averla vissuta, la spaccatura della Consulta, in una camera di consiglio che di fatto schiacciò i principi costituzionali in nome di una logica corporativa. Una scelta che suscitò l’indignazione del relatore, Franco Modugno, che si rifiutò di sovvertire i principi costituzionali e di scrivere una sentenza diametralmente opposta a quella redatta, poco prima, nel caso che riguardava Matteo Renzi. Zanon ha svelato il retroscena mercoledì sera, a Milano, nel corso della presentazione del libro “La gogna. Hotel Champagne la notte della giustizia italiana”, di Alessandro Barbano.

Un libro che racconta quella stagione terribile per la magistratura, che servì, di fatto, a cambiare le dinamiche di potere all’interno del Csm, grazie ad un trojan inoculato nel telefono di Luca Palamara, che carpì le trattative delle correnti attorno nomina del nuovo procuratore di Roma. Quella sera, come noto, c’erano anche due parlamentari, tra i quali Cosimo Maria Ferri, magistrato in aspettativa per via del suo mandato parlamentare, che per quelle captazioni è finito davanti alla sezione disciplinare del Csm.

Ma la Camera, lo scorso anno, aveva negato l’utilizzo delle conversazioni, in quanto acquisite in violazione dell’articolo 68 della Costituzione. Una violazione consapevole, secondo i deputati, tanto da spingere l’allora deputato Andrea Delmastro, di FdI, a parlare di un «regolamento di conti interno alla magistratura». Dalla lettura degli atti era emerso con chiarezza che sin da febbraio - e quindi ben prima della cena all’Hotel Champagne, che risale al 9 maggio 2019 - gli inquirenti fossero a conoscenza della possibilità di imbattersi in Ferri, il cui nome compare 341 volte nelle varie richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche, delle quali 107 in una sola richiesta antecedente il 9 maggio. E la sua identificazione avviene almeno a partire dal 12 marzo 2019. Da qui il dubbio legittimo che Ferri, pur mai indagato, fosse un bersaglio delle indagini.

Inoltre, aveva evidenziato la giunta per le autorizzazioni, gli investigatori avevano contezza che si sarebbe svolto l'incontro all'Hotel Champagne e che vi avrebbero partecipato non uno, ma ben due deputati, «ma non hanno avuto cura di interrompere un'attività investigativa che non poteva essere effettuata con quelle modalità». Dopo il no della Camera, il Csm decise di sollevare il conflitto di attribuzioni, facendo finire la vicenda davanti alla Consulta. Che diede ragione a Palazzo dei Marescialli, rispedendo la questione alla Camera, dove poche settimane fa i deputati hanno ribadito il loro niet. La sentenza della Consulta aveva fatto esultare la schiera dei “giustizialisti”, preallertati da un articolo di Repubblica che dava per scontata una pronuncia favorevole a Ferri.

Ma oggi Zanon offre un punto di vista completamente diverso. «Nel non detto di quella motivazione, e a noi fece inviperire questa cosa - spiega -, c’è (e fu un argomento speso): non è pensabile che si dia ragione alla Camera, perché se diamo ragione alla Camera le intercettazioni acquisite diventano prove non più valide e il rischio a catena che tutti i processi disciplinari di fronte alla sezione, quei cinque che erano stati imbastiti contro quegli sventurati partecipanti alla serata all’Hotel Champagne, finissero in nulla». Ed «è per tabulas che il relatore di quella sentenza era originariamente il professor Franco Modugno, grande vecchio maestro del diritto costituzionale, insospettabile di interessi se non quelli della scienza - continua Zanon -, il quale di fronte alla scelta dalla maggioranza del collegio si rifiuta di scrivere una sentenza cui sostanzialmente si rovescia quello che la Costituzione dice in tema di intercettazioni».

Parole esplosive, che rappresentano il culmine del ragionamento di Zanon. Che non manca di andare più a fondo: quelle intercettazioni, nate per scovare una corruzione poi mai esistita, «a poco a poco diventano un modo per approfondire» i rapporti fra Unicost e MI e le «dinamiche interne addirittura al pluralismo della magistratura come si sviluppa all'interno del Consiglio superiore». Ovviamente con la convinzione «che queste dinamiche sono viziate in radice da interessi opachi. Però questa opacità non si capisce bene in termini penali davvero da che cosa sia dovuta». La sentenza della Consulta, dunque, avrebbe rovesciato ciò che la Costituzione dice in tema di intercettazioni: «Sostanzialmente si va a dire “basta evitare di iscrivere il parlamentare sul registro degli indagati anche se di fatto lui è al centro dell'indagine per poterlo intercettare” - continua Zanon -, perché i fatti che noi avevamo visto negli atti dimostravano con ogni evidenza che la direzione delle indagini era Cosimo Ferri e i suoi rapporti con Palamara». E quindi «la Carta finisce, come dice Barbano, sotto i tacchi».

La vicenda, secondo l’ex giudice, sarebbe indicativa di «alcuni raccordi, equilibri tra poteri dello Stato». Parole forti, la cui portata sembra chiara a Zanon, che però precisa: «Adesso queste cose è anche giusto dirle, d'altra parte c'è un palese dissenso che emerge per tabulas dal fatto che il relatore si è rifiutato di stendere una motivazione che andava esattamente in senso contrario a quella che aveva appena scritto sul caso Renzi. Punto».