Un anno e tre mesi: è la condanna inflitta dal Tribunale di Brescia a Piercamillo Davigo, ex consigliere del Csm ed ex pm del pool di Mani Pulite, accusato di rivelazione ed utilizzazione di segreto d’ufficio. E l’utilizzo di tale segreto sarebbe stato quello di mettere mezzo Csm contro l’ex amico Sebastiano Ardita, indicato falsamente dall’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara tra gli appartenenti della presunta - ma smentita - “Loggia Ungheria”. La decisione è arrivata ieri, dopo dieci udienze del processo nato dalla consegna dei verbali di Amara a Davigo da parte del pm milanese Paolo Storari, che ad aprile 2020 si è rivolto a lui come forma di autotutela, denunciando il presunto lassismo della procura di Milano nelle indagini sulla loggia. Così bussò alla porta di Davigo, al quale - dopo essere stato rassicurato sulla inopponibilità del segreto ai consiglieri del Csm - consegnò su una chiavetta usb (di cui si sono perse le tracce) dei verbali non firmati, che contenevano i nomi di decine di persone che avrebbero fatto parte della «nuova P2», pezzi dello Stato tra i quali anche molti magistrati. E tra questi ci sarebbe stato Ardita, cofondatore con Davigo della corrente Autonomia&Indipendenza, passato dall’essere un suo intimo amico a nemico giurato, dopo un acceso diverbio sulla scelta da fare per il successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Davigo, una volta riaperti i confini durante il primo lockdown, stampò quei verbali nel suo ufficio del Csm mostrandoli a diversi consiglieri, tra i quali il vicepresidente David Ermini, al quale consegnò una copia che poi finì nel tritacarta, e al senatore Nicola Morra. A tutti suggerì cautela nei suoi rapporti con Ardita, presunto massone al pari di un altro consigliere, Marco Mancinetti, sul quale, però, non si soffermò molto.

È proprio da tale consegna che è partita una delle più clamorose fughe di notizie della storia della magistratura: quei verbali segretissimi, potenzialmente capaci di stravolgere l’ordine istituzionale, una volta arrivati a Palazzo dei Marescialli vennero spediti alla stampa e all’allora consigliere del Csm Nino Di Matteo, che decise di denunciare tutto in plenum, svelando quello che definì un complotto contro Ardita. Da lì partì un’indagine della procura di Roma sulla “manina” che aveva spedito i plichi e che portò ad individuare come presunta responsabile l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, assolta però in primo grado a Roma dall’accusa di calunnia nei confronti dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, contro il quale il mittente inveiva in un bigliettino anonimo. Un capro espiatorio, probabilmente, mentre il “corvo”, ad oggi non ha ancora un nome.

Sono undici gli episodi contestati all’ex magistrato oggi in pensione, il più grave dei quali è proprio quello relativo a Morra, allora presidente della Commissione parlamentare antimafia. Se anche, infatti, fosse plausibile l’inopponibilità ai membri del Csm del segreto istruttorio, dietro il quale Davigo si è trincerato citando ad ogni udienza la circolare che lo avrebbe autorizzato a conoscere atti blindatissimi, niente motiverebbe l’aver rivelato anche ad un esterno al Consiglio come Morra il contenuto di quei documenti. Sicché il comportamento di Davigo non avrebbe, secondo l’accusa, «evitato alcun danno» alle indagini o al Csm, così come sostenuto dallo stesso in aula, ma sarebbe consistito nella scelta di «chi e quando doveva sapere» con «chiacchiericcio» incontrollato, secondo la difesa di Ardita proprio per danneggiare il suo ex amico. Quella dell’ex pm sarebbe dunque «un'interpretazione arbitraria» delle circolari, alle quali si è appigliato sin dall’inizio, con lo scopo, secondo l’accusa, di ottenere risultati «che non hanno servito le istituzioni». E in presenza di un grave pericolo per la Repubblica, avevano detto i pm in aula (che avevano chiesto la condanna ad un anno e quattro mesi), «la risposta deve essere il più profondo e leale attaccamento alle norme: c'è chi ne ha fatto il rispetto una ragione di vita». Quei verbali erano infatti arrivati a Palazzo dei Marescialli in una forma irricevibile, come confermato da più testimonianze, tanto da essere utili solo a generare un nuovo clima di veleni. Circostanza che non poteva non essere nota a Davigo, all’epoca anche componente della Commissione per il regolamento interno del Consiglio. Secondo l’ex pm, invece, era stato proprio il suo intervento presso l’allora procuratore generale Giovanni Salvi a sbloccare le indagini e a «ripristinare la legalità», cosa smentita dall’allora procuratore Francesco Greco e ora anche dal Tribunale.

Laconico il commento dell’avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo: «La condanna è un errore giuridico e un errore di fatto, presenteremo appello», ha dichiarato dopo la lettura della sentenza, che ha previsto la sospensione condizionale della pena e anche un risarcimento di 20mila euro per Ardita - difeso da Fabio Repici -, parte civile al processo. Prima che il collegio presieduto da Roberto Spanò si riunisse in camera di consiglio, Borasi e Domenico Pulitanò, altro legale di Davigo, ne hanno chiesto l’assoluzione con la «formula liberatoria più ampia possibile»: secondo la difesa, infatti, l'incontro tra Storari e Davigo «ha a che fare con le funzioni di entrambi», una questione di «elementare cortesia e colleganza», in una situazione, per il pm milanese, «di serio disagio professionale». «Il senso delle parole di Davigo è che Storari poteva parlargli liberamente anche entrando su cose che in via di principio sono coperte da segreto. Le circolari presuppongono che le competenze riguardano anche attività coperte da segreto», ha detto Pulitanò. Ma per la procura Davigo avrebbe indotto in errore Storari, convincendolo a dargli una copia di quei verbali grazie alla bufala dell’inopponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm. «Davigo dice a Storari il falso - ha affermato il pubblico ministero -. Se gli avesse detto la verità, e cioè che nel 99 per cento dei casi gli atti di indagine non vengono mai resi ostensibili al Csm prima della discovery degli stessi, Storari non avrebbe commesso il reato». Per Repici, «c'è stato un tentativo di golpe ai danni del Consiglio superiore della magistratura e il consigliere Ardita era stato visto come uno dei pochi ostacoli» alla realizzazione. «Era l'unica sentenza possibile nel rispetto della legge, davanti a un reo confesso non si poteva far finta di niente», ha concluso. Per l’Unione Camere penali italiane, «Davigo sarà ora finalmente in condizione di comprende fino in fondo - ad occhio e croce per la prima volta nella sua vita - la funzione fondamentale, inderogabile ed incoercibile del diritto di impugnazione delle sentenze di condanna, diritto che egli ha invece sempre fieramente considerato e propagandato come del tutto eccezionale e residuale, giacché altrimenti causa della paralisi della nostra giustizia». A voler citare l’ex pm di Mani Pulite toccherebbe dire che non l’ha fatta franca, parafrasando la sua massima forse più famosa, quella secondo cui «un innocente a volte è un colpevole che l’ha fatta franca». Ma le regole dello Stato di diritto valgono anche per il grande inquisitore: Davigo è un presunto innocente. Fino alla Cassazione.