«Mandare quei verbali al Consiglio superiore che, nell'ipotesi di Amara, era l'organo che la Loggia segreta voleva condizionare, avrebbe significato distruggere l'indagine. Era come se ci avessero consegnato del tritolo». Non fa sconti Laura Pedio, procuratore aggiunto a Milano, sentita ieri a Brescia nel processo contro Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione di segreto per aver fatto circolare i verbali dell’ex avvocato esterno Piero Amara, consegnatigli ad aprile 2020 dal pm Paolo Storari, sulla presunta Loggia Ungheria.

Un’indagine, ha spiegato la toga, praticamente azzoppata dopo quel gesto, che ha fatto finire le dichiarazioni del presunto “pentito” sulla stampa e che sono servite, di fatto, soltanto a creare l’ennesimo terremoto all’interno della magistratura. Pedio, che insieme a Storari aveva raccolto le dichiarazioni di Amara sulla loggia, ha spiegato il clima vissuto in quei mesi e la sua preoccupazione quando il giornalista del Fatto Antonio Massari - tra i destinatari dei verbali inviati da un anonimo ai giornali - si presentò con quei documenti segreti in procura. Fu la stessa procura di Milano ad indagare: Storari era infatti convinto che fosse stato lo stesso Amara - o il grande accusatore di Eni Vincenzo Armanna - a far circolare quei documenti. Una convinzione errata, dal momento che fu proprio la consegna degli stessi a Davigo da parte di Storari, che si rivolse a lui per autotutelarsi visto il presunto immobilismo della procura a procedere con le indagini, a renderli pubblici. Quei verbali erano però arrivati a Palazzo dei Marescialli in una forma irricevibile, come confermato da più testimonianze, tanto da essere utili solo a generare un nuovo clima di veleni. Circostanza che, come spiegato dalla principale vittima della fuga di notizie, l’ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita (parte civile al processo, difeso dall’avvocato Fabio Repici), non poteva non essere nota a Davigo, all’epoca anche componente della Commissione per il regolamento interno del Consiglio.

Le dichiarazioni di Amara riguardavano una cinquantina di magistrati, ma a finire nel tritacarne fu principalmente Ardita, cofondatore, assieme a Davigo, della corrente Autonomia e Indipendenza e passato dall’essere un suo fedelissimo a nemico giurato. «Perché mai avremmo dovuto trasmettere i verbali al Csm? - si è chiesta Pedio - Non c'era alcun motivo. Nessun collega era stato iscritto e nessuno è stato mai iscritto neppure dalla procura di Perugia (a cui il fascicolo è passato per competenza il 4 gennaio 2021, ndr). C'erano 47 magistrati indicati come appartenenti alla Loggia eppure Perugia non ha iscritto nessuno». E a confermare il fatto che quei verbali non potessero finire a Palazzo dei Marescialli c’è anche il rifiuto opposto da Perugia alla richiesta del Csm, che dopo lo scandalo chiese di poter avere tutta la documentazione. «Il procuratore Cantone ha opposto il segreto istruttorio», ha sottolineato Pedio, di fatto chiudendo il cerchio attorno alla questione. Lo scopo di Storari era però quello di far partire un’indagine azzoppata, a suo dire, dal tentativo di tutelare Amara, dal momento che le sue dichiarazioni ne avrebbero minato la credibilità. E ciò avrebbe mandato in frantumi il processo Eni- Nigeria (poi chiusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati), nel quale Amara era considerato fondamentale dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, anche loro finiti sotto processo a Brescia per aver omesso atti utili alle difese.

Pedio ha negato qualsiasi timore nel condurre un’indagine sui nomi altisonanti citati da Amara: «Erano dichiarazioni delicate in cui si faceva riferimento a più di cento persone delle più alte cariche dello Stato, civili e militari. Non ho una storia di timore nell'affrontare le indagini, quello che più mi preoccupava era che si trattava di dichiarazioni un po' vaghe e quindi di capire se avessero contenuti per procedere alle iscrizioni. La natura delle dichiarazioni induceva a una prudenza tecnica».

A parlare in aula anche Alessandro Pepe, ex coordinatore del gruppo A& I, che di fatto ha ricostruito il clima di tensione tra Davigo e Ardita fino ad ipotizzare che Davigo fosse a conoscenza di informazioni sul suo conto prima dell’aprile 2020. Informazioni che poi fu Davigo a far circolare, invitando diversi consiglieri a prendere le distanze dal magistrato per la sua presunta appartenenza - poi smentita e facilmente smentibile - alla loggia. «Nell'estate 2020 incontrai Piercamillo Davigo e mi disse, nel cortile del Consiglio, “stai lontano da Sebastiano Ardita, c'è una brutta indagine su di lui” - ha raccontato Pepe -. Non mi disse altro, se non che c'era un'indagine fatta da una procura del Nord e mi disse, con termini amicali, quasi paternalistici: non lo frequentare, non ti fidare». Un invito che però non ha mai raccolto: «L'ho continuato a frequentare, non ci ho mai creduto, erano accuse troppo forti», ha sottolineato Pepe, al quale Ardita, dopo le prime notizie sugli organi di stampa, ha confessato di sentirsi «fatto fuori», subendo «un grande contraccolpo psicologico».

Pepe ha poi ricostruito un episodio più volte evocato in aula, ovvero l’incontro del febbraio 2020, quando il gruppo di A& I discusse della nomina del procuratore di Roma, dopo gli scandali del Palamaragate. Quando Ardita entrò nella stanza, ha raccontato Pepe, «Davigo con un'interlocuzione abbastanza violenta disse “cosa pensi di fare?' sul voto del procuratore di Roma e Ardita rispose “penso che voterò Creazzo”». Una risposta che provocò una dura reazione: «“Se tu non voti Prestipino sei fuori dal gruppo”, disse Davigo. Si creò un momento di tensione - ha aggiunto -, noi tutti restammo raggelati, Ardita lo ricordo sempre più vicino alla porta. “Hai qualcosa da nascondere, qualcosa che ci devi dire? Ne parleremo tu e io dopo”, disse Davigo in modo aggressivo, urlando». A quel punto Ardita andò via e Davigo «disse che qualunque voto non a favore di Prestipino era un modo per stare con quelli dell'hotel Champagne». Un’affermazione di fatto errata, dal momento che Creazzo, stando alle frasi registrate dal trojan all’Hotel Champagne, era tra i candidati penalizzati dagli accordi correntizi. «Mi sono doluto di non aver reagito a questa aggressione verbale - ha concluso Pepe -. Col senno di poi ho pensato che Davigo sapesse già qualcosa».