Marcella Contrafatto non era il “corvo” del Csm, ma forse solo l’ennesima vittima di una storiaccia degna di una serie tv. L’ex segretaria di Piercamillo Davigo, licenziata in tronco da Palazzo dei Marescialli senza nemmeno attendere di conoscere l’esito delle indagini, è stata prosciolta «per non aver commesso il fatto» dal gup di Roma Nicolò Marino, di fronte al quale la donna è scoppiata a piangere per «la fine di un incubo».

A suo carico era stata mossa l’accusa di calunnia ai danni dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco: secondo la procura di Roma sarebbe stata lei a spedire i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara ai giornalisti e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Verbali ai quali era allegato un biglietto anonimo, «in cui tra l’altro si affermava che il verbale in questione era stato ben tenuto nascosto» da Greco «chissà perché» e che «in altri verbali c’è anche luì (parte manoscritta volta verosimilmente a evidenziare che da alcuni verbali di interrogatorio risulta la presenza del dottor Greco)». In quei documenti, il discusso “pentito” Amara aveva raccontato dell’esistenza della fantomatica “Loggia Ungheria”, una presunta società segreta della quale avrebbero fatto parte pezzi dello Stato - inclusi alcuni magistrati e consiglieri del Csm - e capace di pilotare le nomine ai più alti livelli. La Loggia, però, secondo la procura di Perugia non sarebbe mai esistita e quei verbali sono serviti solo a far scoppiare l’ennesima guerra tra toghe e a infangare decine di persone, primo fra tutti il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita. Quei verbali erano stati consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari, per denunciare l’immobilismo dei vertici della procura milanese.

E Davigo, anziché consigliare le vie formali, mostrò quei documenti a diversi consiglieri, alle sue segretarie e all’allora presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, consigliando a tutti di prendere le distanze da Ardita. Vittima, secondo Di Matteo e la procura di Brescia - dove è in corso il processo a Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio -, di un complotto. E vittima di un complotto, forse, potrebbe esserlo stata anche Contrafatto, dipinta a Brescia dalla sua ex collega Giulia Befera e dallo stesso Davigo come una persona «sopra le righe» e dunque probabilmente capace di fare un gesto del genere per vendicare la cacciata dell’ex pm di Mani Pulite dal Csm.Ma gli elementi di questa storia - indicativi, secondo la procura, di una responsabilità della donna - racconterebbero una verità diversa. Verità ricostruita meticolosamente da Alessia Angelini, legale di Contrafatto, che ha smontato pezzo per pezzo la tesi dell’accusa. «Sono molto soddisfatta, perché non era semplice, ma siamo riusciti a confutare uno per uno tutti gli indizi, dimostrando che erano solo elementi inconferenti - ha spiegato al Dubbio Angelini -. L’unico vero elemento indiziante era la consulenza della pubblica accusa che sosteneva che quelle cinque parole scritte in stampatello fossero attribuibili alla signora Contrafatto. Quella era l’unica prova diretta. Ma l’esito della perizia disposta dal giudice è stato negativo: quella grafia non era assolutamente la sua». Ma anche gli altri indizi si sono dimostrati inadatti a suffragare la tesi che fosse lei la responsabile.

Nel caso della telefonata con la quale “il corvo” ha anticipato l’invio dei verbali alla giornalista di Repubblica Liana Milella, infatti, non c’erano elementi per sostenere che a chiamare fosse stata l’ex segretaria di Davigo. L’unico collegamento era la sim, intestata al Csm e nella disponibilità di Contrafatto. Ma a quel telefono, ha sostenuto la donna davanti al gup, avrebbero potuto accedere più persone a Palazzo dei Marescialli. «Contrafatto aveva due telefoni - ha spiegato Angelini -, uno personale e uno dell’ufficio. Sicuramente la telefonata è partita da quest’ultimo, ma la voce non era certamente la sua. Sono state fatte due telefonate a Milella, la seconda delle quali di 11 minuti, e la giornalista ha detto chiaramente di ricordare che si trattava della voce di una giovane donna del nord, che di certo non poteva essere la mia assistita». C’è poi la consegna del plico al Fatto Quotidiano, dove la “postina” si era recata il 9 novembre 2020 alle 17.30. Secondo quanto riferito dal receptionist, a consegnare i verbali sarebbe stata una donna, arrivata sul posto alla guida di un’auto bianca. «Al receptionist sono state sottoposte quattro fotografie e non ha mai riconosciuto Contrafatto - ha aggiunto l’avvocata -. Inoltre le telecamere degli edifici contigui alla redazione avevano ripreso sette vetture bianche transitate per quella strada tra le 16.30 e le 18.30.

L’unica che poteva corrispondere ad una di quelle nella disponibilità di Contrafatto era una Smart fortwo, ma quello specifico modello è stato prodotto dopo il 2014 e noi abbiamo dimostrato che l’auto della signora Contrafatto risale al 2010. Inoltre, la mia assistita non usa quell’auto dal 2019, ovvero da quando l’ha regalata alla figlia». Ma c’è di più: la consulenza disposta da Storari sui verbali consegnati al giornalista del Fatto ha evidenziato delle differenze tra i verbali arrivati in redazione - e quindi spediti dal “corvo” - e quelli originali. «Non potevano dunque essere gli stessi - ha aggiunto la legale -. I verbali, com’è stato dimostrato, circolavano già da un anno». Verbali che sono arrivati anche a Contrafatto via posta a giugno 2020.Qualcuno ha voluto incastrarla, dunque? «Non penso si tratti di un’azione volontaria - ha concluso Angelini -. Penso che qualcuno li abbia mandati a lei perché non aveva il coraggio di fare tutto questo in prima persona e pensava che la mia assistita avrebbe fatto scoppiare il caos, prima del voto sulla permanenza al Consiglio del dottor Davigo. Ma Contrafatto non si sarebbe mai sognata di inviare dei verbali».