La sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza 1499/ 2025, è intervenuta su un tema delicatissimo per chi è già stato condannato in via definitiva: che strumenti ha ancora a disposizione, se ritiene che il suo processo sia stato ingiusto alla luce della Convenzione europea dei diritti umani? Il caso riguarda un uomo, condannato all’ergastolo a Napoli per associazione di tipo mafioso, omicidi, tentato omicidio, reati in materia di armi, ricettazione e incendio. La condanna è diventata definitiva nell’aprile 2023.

La difesa ha provato a riaprire il caso chiedendo la revisione alla Corte d’appello di Roma, che però ha dichiarato la richiesta inammissibile. Da qui il ricorso in Cassazione. Al centro della vicenda c’è un nodo giuridico preciso: esiste ancora la cosiddetta “revisione europea”, cioè la possibilità di chiedere la revisione di una sentenza definitiva per adeguarsi a una decisione della Corte di Strasburgo? La difesa del condannato sosteneva di sì, richiamando l’articolo 630 del codice di procedura penale come era stato “esteso” nel 2011 dalla Corte costituzionale, con la famosa sentenza n. 113, proprio per permettere la riapertura di processi in modo da potersi conformare a pronunce della Corte EDU. La Cassazione però ha ricostruito il quadro in modo diverso.

Gli ermellini hanno ricordato che la Corte costituzionale era intervenuta solo perché mancava del tutto, nell’ordinamento italiano, una norma che consentisse di dare esecuzione alle sentenze di Strasburgo quando veniva accertata una violazione della Convenzione in un processo penale ormai definitivo. In quel vuoto, la Consulta aveva “forzato” l’articolo 630, aggiungendo un’ipotesi di revisione speciale, ma aveva anche chiarito che quella revisione poteva essere richiesta solo dal soggetto che aveva portato il caso davanti alla Corte EDU e aveva ottenuto una decisione favorevole.

Su questo terreno sin è inserita la riforma Cartabia. La legge delega del 2021 ha imposto al legislatore di creare un rimedio ad hoc per eseguire le decisioni della Corte europea. Il decreto legislativo che ha dato attuazione compiuta alla riforma, il 150/ 2022, ha così introdotto nel codice di procedura penale l’articolo 628- bis, collocato tra ricorso per Cassazione e revisione. Si tratta di un nuovo mezzo straordinario concesso al condannato o alla persona sottoposta a misura di sicurezza che abbia presentato ricorso a Strasburgo, abbia ottenuto una decisione favorevole o una cancellazione dal ruolo per riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato, e chieda di eliminare gli effetti pregiudizievoli di quella violazione.

In pratica, oggi è la Cassazione che valuta quanto la violazione accertata dalla Corte EDU abbia inciso sulla condanna, e decide quale strada seguire: revocare la sentenza, inviare gli atti al giudice dell’esecuzione, oppure disporre la riapertura del processo nel grado e nella fase in cui si è verificata la violazione.

Il tutto all’interno di un procedimento unico, strutturato proprio per dare “esecuzione” al dictum europeo, salvaguardando però il principio del giudicato. È qui che la Cassazione afferma come il nuovo articolo 628- bis abbia lo stesso scopo della vecchia “revisione europea”, ma con un meccanismo diverso e autonomo. E proprio per questo – ha sottolineato la Corte – quel rimedio di matrice giurisprudenziale non ha più spazio.

La funzione di adeguare la condanna alla decisione della Corte EDU è oggi interamente assorbita dall’articolo 628- bis. Dunque non si può più utilizzare l’articolo 630 per chiedere la revisione “europea”: la strada è una sola, e passa dalla Cassazione via 628- bis. Nel caso concreto, però, il condannato non aveva mai presentato ricorso alla Corte di Strasburgo. Non poteva quindi attivare il nuovo rimedio, che è riservato espressamente a chi è stato parte nel giudizio europeo.

La difesa ha provato allora a spostare il problema sul piano costituzionale, sostenendo che questa limitazione violerebbe i principi di uguaglianza, difesa e giusto processo, perché escluderebbe dall’accesso al rimedio chi, pur trovandosi nella stessa situazione, non ha adito Strasburgo.

La Cassazione ha respinto anche questo argomento. C’era poi un secondo fronte di attacco: la difesa contestava l’utilizzo, nel processo di merito, del codice Imei del cellulare intercettato, sostenendo che fosse stato acquisito all’insaputa dell’interessato e senza sequestro, in violazione della libertà e segretezza delle comunicazioni. Ma anche qui la Cassazione non ha aperto alcun varco, rigettando il ricorso.