Pochi giorni dopo i summit in Alaska e Washington, celebrati dalla Casa Bianca come un successo, arrivano i segnali di gelo da Mosca. Le dichiarazioni ottimistiche di Donald Trump, convinto di poter aprire la strada a una svolta nei negoziati sull’Ucraina, si scontrano con i niet del Cremlino, che ribadisce la propria linea intransigente.

Da Washington, Trump ha parlato di progressi sulle garanzie di sicurezza e dell’ipotesi di un incontro diretto tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Ma da Mosca il vicecapo del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev, ha escluso categoricamente qualsiasi presenza di truppe Nato in Ucraina, mentre il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha negato sia la possibilità di un bilaterale in tempi brevi sia l’accettazione di garanzie senza un veto russo effettivo.

Secondo analisti citati dal Washington Post, la Casa Bianca cadrebbe in una forma di wishful thinking, sottovalutando la coerenza della posizione russa: neutralizzazione dell’Ucraina, limitazione delle sue forze armate, divieto d’ingresso nella Nato e vincoli economici a favore di Mosca.

«Non c’è nulla di nuovo: la posizione del Cremlino è la stessa messa sul tavolo a Istanbul nel 2022», spiega Andrew S. Weiss del Carnegie Endowment. Un immobilismo che evidenzia i limiti della diplomazia di Trump, accusato di aver allontanato le agenzie di sicurezza nazionale per affidarsi a un circolo ristretto di fedelissimi, tra cui l’immobiliarista Steve Witkoff, nominato inviato speciale per Medio Oriente e Russia.

«Trump ha pensato di poter chiudere la guerra in 24 ore contando solo sul rapporto personale con Putin, un approccio dilettantesco», sostiene James Rubin, ex consigliere di Antony Blinken.

La Casa Bianca respinge però le critiche, rivendicando l’efficacia dell’approccio diretto: «Witkoff ha avuto più colloqui con Putin di qualsiasi esperto delle passate amministrazioni», ha dichiarato una fonte, confermando che un incontro con il leader del Cremlino resta in agenda.