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EUGENIO SCALFARI
Si può dire che fosse già in agonia e da un bel pezzo. È vero, ma tra l’agonia e il trapasso c’è un bel salto e La Repubblica, testata che rappresenta un capitolo centralissimo nella storia non solo del giornalismo italiano ma dell’Italia repubblicana, ammaina le vele solo ora, con un cambio di proprietà ancora incerto e confuso ma che segna la conclusione dell’avventura iniziata quasi mezzo secolo esatto fa, il 14 gennaio 1976, da Eugenio Scalfari. Il nome era un omaggio e anche un po’ una dichiarazione d’intenti: era ripreso dal quotidiano portoghese Republica, che due anni prima era stato la voce della Rivoluzione dei Garofani che aveva abbattuto il regime fascista di Salazar.
Il quotidiano fondato e diretto da Scalfari ha rimodellato come nessun altro la grammatica del giornalismo di questo Paese, nella forma e nella sostanza. A rigore non lo si può definire il primo giornale-partito in assoluto, c’era già da cinque anni il manifesto che però era un giornale rivolto a un pubblico molto specifico e il cui percorso era soprattutto all’inizio inseparabile da quello dell’omonimo gruppo politico e poi del Pdup. Repubblica no. Schierata a sinistra lo è sempre stata ma senza mai sottomettersi alle esigenze di qualche partito o qualche leader. L’ambizione di Scalfari era opposta: guidare e indirizzare i partiti della sinistra, “dare la linea”, adoperare il giornalismo come strumento attivo e autonomo nell’agone politico. Oggi sembra la norma e lo sembra anche troppo. Nel 1976 era un’innovazione assoluta e sin troppo drastica. Infatti per affermarsi ci mise parecchio, raggiungendo il pareggio di bilancio, con 180mila copie vendute, solo nel 1980.
Ma prima che nella comunicazione politica Repubblica squassò le regole nel giornalismo propriamente detto, con una serie di modifiche formali che lo resero sin dall’inizio diverso da tutti gli altri quotidiani, i piccoli e i grandi. L’elenco parla da solo: la notizia del giorno occupava la seconda e terza pagina, come è da decenni uso tanto comune da far dimenticare che nel 1976 non lo aveva ancora fatto nessuno. Il formato tabloid era inedito da noi: un giornale da poter infilare in tasca. Le colonne da nove, come in tutti gli altri quotidiani, diventarono sei, la cultura traslocò dalla tradizionale terza pagina per occupare il paginone centrale: raddoppio secco dello spazio, tanto più rilevante in quanto le pagine erano solo venti. Niente sport. Niente cronaca. Repubblica voleva essere un “secondo giornale”, destinato a un pubblico colto e attento all'approfondimento.
Ma Scalfari non era Mario Pannunzio, il celebre e celebrato direttore del Mondo col quale si era in parte fatto le ossa e col quale aveva poi rotto i rapporti. Pannunzio veniva da quell’intellettualità colta e sostanzialmente elitaria alla quale il successo di massa non interessava e probabilmente, anzi, lo disprezzava. Scalfari voleva vendere e anche per questo il suo giornale nuovo partì rivolgendosi anche ai movimenti di massa giovanili degli anni ’70, seguiti da un giovane cronista di eccezionale talento destinato a morire suicida di lì a poco: Carlo Rivolta. Acclamazione generale. Interesse e curiosità desti. Vendite scarse. Se non fosse stato sostenuto dal settimanale sempre marcato dalla precedente direzione di Scalfari, L’Espresso, e soprattutto dai prestiti del Banco di Napoli garantiti dal leader socialista Giacomo Mancini, il giornale di Scalfari sarebbe morto in culla.
Prese lo slancio nel 1978, nei 55 giorni del sequestro Moro, incarnando la voce del partito della fermezza, quello contrario a ogni trattativa, fiero avversario di Bettino Craxi, da poco segretario del Psi, il solo a battersi apertamente per trattare con le Br. Non sarebbe esagerato affermare che La Repubblica definì i suoi tratti essenziale, trovò un’identità che sino a quel momento aveva cercato a tentoni, nei 55 giorni. Diventò in quella fase giornale-partito e Scalfari non mollò più la presa: dall'appoggio a Berlinguer all’eterno duello con Bettino Craxi il suo giornale restò quello che era diventato nei giorni del sequestro Moro: un soggetto sui generis della politica e dunque anche del giornalismo, in una fase storica in cui i giornali facevano politica eccome però sforzandosi di nasconderlo e casomai uniformandosi alle esigenze dei diversi potentati di riferimento.
Il quotidiano di Scalfari prese la rincorsa, aprì i cancelli a cronaca e sport, raggiunse il sospirato pareggio di bilancio, superò il Corriere della Sera nel 1986. Subito dopo mise a segno il colpo grossissimo. Non una grande scoop. Non una campagna politico-giornalistica come quelle nelle quali il giornale-partito era già impegnato: un gioco a premi. Si chiamava Portfolio, era una specie di lotteria basata sui risultati quotidiani della Borsa, fruttò al giornale 200mile copie in più vendute ogni giorno.
Scalfari lasciò le redini a Ezio Mauro, uno dei giovani che aveva imbarcato sin dall’inizio del viaggio, vent’anni prima, nel 1996. Rimase editorialista di punta e di gran peso nelle scelte del quotidiano ma Ezio Mauro fu direttore davvero e a tutti gli effetti, uno dei pochi esempi brillanti di innovazione nella continuità. Riuscì nella doppia missione di riadattare il giornale che dirigeva alle esigenze dettate da un rivoluzione tecnologica travolgente, il sito web fu inaugurato nello stesso 1996, e a quelle di un quadro politico terremotato dal crollo della Prima Repubblica. Il quotidiano di Ezio Mauro trovò il suo nemico politico e culturale in Silvio Berlusconi come quello di Scalfari lo aveva individuato in Bettino Craxi.
Le due direzioni storiche di Repubblica hanno coperto l’arco di un quarantennio. Poi, dal 2016, il timone è passato di mano quattro volte: Mario Calabresi, Carlo Verdelli anche se la sua fu apertamente una direzione di transizione, Maurizio Molinari, Mario Orfeo. La giostra basta di per sé a dare il segno della crisi. La proprietà è passata nelle mani della famiglia Agnelli nel 2019, quando la Cir di De Benedetti ha venduto la sua quota del gruppo Gedi, pari al 60,9% del capitale, alla società controllata dagli Agnelli, Exor. Ma a quel punto la mutazione genetica del giornale di Scalfari era già in stato di avanzata regressione. Forse perché non è facile mantenere i connotati del giornale-partito in un’epoca in cui quella formula, un tempo appannaggio di Repubblica, è diventata la norma. Oppure perché nel caos della politica italiana degli anni ’10 non era più possibile scommettere su un’opzione politica, come avevano sempre fatto, quasi sempre perdendo ma conquistando copie e autorevolezza Scalfari e Mauro. E anche perché non c’era più un nemico chiaro e ben identificato contro il quale schierarsi dispiegando le armi del commento politico, della cronaca e del giornalismo d’inchiesta.
Il grande merito e la vittoria professionale di Ezio Mauro era stata il riuscire a traghettare una testata che era parte integrante del tessuto politico-culturale della Prima Repubblica nella Seconda, o comunque si voglia definire la fase successiva. Mario Calabresi ha almeno tentato di ripetere il miracolo in condizioni ancora più proibitive. I successori hanno semplicemente abdicato. Repubblica continuerà a uscire ma della creatura di Scalfari e Mauro resterà solo la testata. Del resto già non era sopravvissuto molto più di questo.


