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FILE - Iranian Narges Mohammadi, delegate of the Center for Human Rights Defenders, listens to a question during a press conference on the Assessment of the Human Rights Situation in Iran, at the U.N. headquarters in Geneva, Switzerland, on June 9, 2008. The Nobel Peace Prize has been awarded to Narges Mohammadi for fighting oppression of women in Iran. The chair of the Norwegian Nobel Committee announced the prize Friday, Oct. 6, 2023 in Oslo. (Magali Girardin/Keystone via AP, File) Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain
È nuovamente tornata in manette Narges Mohammadi, l’attivista iraniana premio Nobel per la Pace, figura emblematica nella lotta per i diritti umani, contro l’oppressione delle donne e per la libertà.
Nata il 21 aprile 1972 a Zanjan, nell’Iran nordoccidentale, è ingegnere fisico di formazione e giornalista. La sua battaglia per i diritti delle donne comincia sin dall’università, tempi in cui è parte attiva anche in un gruppo di alpinismo, prima di dover rinunciare alle sue amate scalate. Nel 1999, sposa un collega giornalista pro-riforma, Taghi Rahmani, arrestato per la prima volta poco dopo. Oggi Mohammadi è stata arrestata per l’ennesima volta, mentre si trovava in libertà provvisoria da dicembre 2024 per motivi di salute. Stava scontando una pena detentiva complessiva di 13 anni e nove mesi nella nota prigione di Evin, a Teheran, accusata di minaccia alla sicurezza nazionale e diffusione di propaganda contro lo Stato.
L’arresto odierno è solo l’ultimo attacco alla sua persona, una lunga odissea cominciata nel 1998, quando rapidamente e ciclicamente le autorità iraniane cercano di mettere la sua voce e autorevole contro la pena di morte, il suo attivismo impegnato e convinto contro gli attacchi con l’acido ai danni delle iraniane. Nel 2008, le autorità iraniane hanno chiuso con la forza il Centro per i Difensori dei Diritti Umani(Defenders of Human Rights Center) da lei diretto - con l’altro Nobel per la Pace, l’avvocatessa iraniana Shirin Ebadi - di cui diversi membri sono stati arrestati e condannati.
Nel 2009, le autorità iraniane le confiscano il passaporto: da allora non può lasciare l’Iran. Nel 2011 è arrestata per il suo impegno a favore degli attivisti per i diritti umani detenuti e delle loro famiglie. Il marito Rahmani si trasferisce in Francia nel 2012, dopo aver scontato 14 anni di carcere, ma lei decide di rimanere in patria per continuare il suo attivismo. Insieme hanno due gemelli, Ali e Kiana. Mohammadi finisce in carcere anche nel 2015, quando il suo attivismo contro la pena di morte le costa un’altra condanna e ulteriori anni di detenzione. Nel maggio 2016, è condannata a 16 anni di carcere per aver creato e guidato «un movimento per i diritti umani che si batte per l’abolizione della pena di morte». Rilasciata nell’ottobre 2020, torna in galera ancora una volta, pochi mesi dopo aver scritto «White Torture».
La sua determinazione è incrollabile: Mohammadi persegue la sua lotta senza sosta, sostenendo con forza e veemenza la rivolta «Donna, Vita, Libertà». Il 12 gennaio 2022, durante un processo farsa durato cinque minuti, è condannata a otto anni e due mesi di carcere e 74 frustate. Tornata in carcere dal 2021, ha pochissimi contatti con i suoi due figli e il marito, che vivono in Francia. Durante la detenzione, le viene conferito il premio Nobel per la Pace 2023, per la «sua lotta pluridecennale in difesa dei diritti delle donne in Iran e per il suo lavoro come vicepresidente del Centro per i Difensori dei Diritti Umani». Un premio che i suoi figli ritirano a Oslo a nome della madre.
Nel famigerato carcere di Erevin, a Teheran, negli ultimi mesi le sue condizioni di salute si deteriorano per vari scioperi della fame, per la mancata assistenza medica e per le torture inflitte. Anche dalla sua cella di prigione, Mohammadi continua a far sentire la sua voce per la libertà e i diritti delle donne. Nel settembre 2023, insieme ad altre detenute a Evin, brucia il suo hijab per celebrare l’anniversario della morte di Mahsa Amini.
Nel marzo 2024, chiede di «criminalizzare l’apartheid di genere», denunciando una «segregazione sistematica e istituzionalizzata» delle donne in Iran. Durante l’estate, viene picchiata dalle guardie carcerarie mentre protestava con altri detenuti contro una serie di esecuzioni, fino a provocarle un infarto. Ricoverata d’urgenza, la sua famiglia e i suoi sostenitori temono il peggio per la sua vita. Nel dicembre 2024 torna in libertà per ragioni mediche e la rivista Time la nomina una delle 100 persone più influenti nella categoria leader.
Anche ora, dopo l’ennesimo arresto durante una cerimonia commemorativa in onore di Khosrow Alikordi, un avvocato per i diritti umani trovato morto in circostanze controverse, Marges Mohammadi continuerà a lottare instancabilmente e con il coraggio che la contraddistingue da sempre. A sostenerla ci sarà come sempre la sua famiglia, le più importanti associazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International, e l’Onu.


