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GIUSEPPPE DE DONNO COLONNELLO CARABINIERI IN CONGEDO, MARIO MORI GENERALE CARABINIERI IN CONGEDO, CHIARA COLOSIMO POLITICO
La vicenda raccontata nel servizio di Report su Mario Mori, accusato di eterodirigere la commissione Antimafia presieduta da Chiara Colosimo, si riduce a una semplice proposta di consulenti: nessuna pista costruita ad arte, nessuna manipolazione di documenti o travisamento delle fonti, soltanto nomi indicati per la loro competenza.
Tra questi, il sottoscritto – che da anni, inizialmente in completa solitudine, indaga alla luce del sole temi rimasti nell’ombra –, il giurista stimato e specchiato Giovanni Fiandaca, il giudice Alberto Cisterna, ex numero due della lotta alla mafia, e l’avvocato Basilio Milio, noto per la sua approfondita ricerca documentale.
Eppure, contrariamente al ritratto di Mori come uomo dei “poteri forti”, nessuno di loro ha mai assunto l’incarico. Io ho rifiutato, Fiandaca ha mantenuto un atteggiamento critico nei confronti della commissione, e alla fine nessuna delle presunte proposte di Mori si è concretizzata. Il dottor Cisterna è consulente non per merito di Mori, lo è per un altro gruppo di lavoro della commissione Antimafia che non ha nulla a che vedere con le stragi.
Sarei l’ispiratore della tesi sul conflitto di interessi di Scarpinato
Come d’altronde era già stato anticipato su Il Dubbio e poi da Il Fatto Quotidiano, un presunto investigatore – rappresentato a Report da un attore nella finta intervista di Paolo Mondani, con tanto di coppola in testa – rivela il contenuto delle intercettazioni telefoniche (coperte tuttora dal segreto investigativo) tra Mori e il sottoscritto, in cui praticamente avrei suggerito di sollevare il senatore pentastellato Roberto Scarpinato dalla commissione Antimafia. Come già spiegato e riportato, si tratta di una mia nota opinione espressa in diversi articoli.
D’altronde, è evidente come fin dall’inizio ci fosse una questione di opportunità, emersa puntualmente fin dalla prima audizione dell’avvocato Fabio Trizzino e di Lucia Borsellino, quando si creò uno scontro tra il legale e lo stesso Scarpinato. Scontro inevitabile non solo per la questione, tuttora non chiarita, del procedimento relativo al dossier “Mafia-appalti” durante il biennio 1991-’92, ma anche perché lo stesso senatore pentastellato è testimone e tuttora custode di un segreto che gli avrebbe confidato Paolo Borsellino. Ad oggi, a parte la ricostruzione fatta dal giudice Pellino nella sentenza d’appello sulla “trattativa”, che riconduce a fatti collegati al dossier, non conosciamo dal diretto interessato le parole riferite dal giudice massacrato in via D’Amelio.
Che io sia l’ispiratore, e che quindi abbia avuto addirittura un’influenza sul Parlamento, è talmente esilarante da mettere in luce la mancanza totale di senso del ridicolo in una trasmissione che dovrebbe fare giornalismo d’inchiesta. Il conflitto d’interessi viene sollevato proprio dopo le audizioni di Fabio Trizzino, ma l’annuncio di modifica della legge istitutiva della commissione – per contrastare conflitti d’interesse che coinvolgano uno o più componenti – nasce quando spuntano le intercettazioni in cui, secondo quanto riportato da La Verità, il senatore Scarpinato avrebbe concordato domande e risposte con l’ex collega Gioacchino Natoli, in vista di un’audizione in cui quest’ultimo avrebbe dovuto rispondere alle “accuse” di Trizzino sull’archiviazione e la distruzione dei brogliacci riguardanti un procedimento scaturito da una nota inviata all’epoca dalla Procura di Massa Carrara.
Parliamo in particolar modo delle ricostruzioni secondo cui Antonino Buscemi, braccio destro di Totò Riina, era in società con il colosso Ferruzzi-Gardini: dati d’indagine che, come lo stesso Scarpinato ammette nella contro-relazione del M5S, sarebbero dovuti confluire nel procedimento “Mafia-appalti” di allora. Ebbene, tali intercettazioni tra Scarpinato e Natoli hanno portato appunto alla proposta di legge. Questo per far comprendere che non c’è alcun nesso tra la mia opinione espressa a Mori nel 2023 e quella iniziativa.
Ovviamente non è credibile quanto riportato da La Verità. Una persona seria come Scarpinato non può aver aiutato Natoli a preparare le risposte. Non è credibile quella frase “tu mi alzi la palla e io la schiaccio” che sarebbe stata pronunciata fra i due. Come insegna lo stesso senatore, si sarebbe trattato di atto eversivo: dall’interno dell’istituzione – non dall’esterno – si orienterebbe l’andamento di un’indagine dell’Antimafia.
La concezione dei dem su “mafia-appalti”
Purtroppo, ancora una volta, dalle interviste messe in onda da Report emerge come i commissari del Partito democratico non abbiano compreso a fondo la strategia stragista di Cosa Nostra. Al netto delle tesi stravecchie, smentite e poi riproposte tanto in ambito mediatico quanto nelle precedenti commissioni Antimafia, resta invece da leggere e far propria la lezione di Giovanni Falcone.
Cosa Nostra agisce tramite delitti che lo stesso giudice definisce di “terzo livello”, necessari a salvare l’organizzazione. Quando un politico con ruoli di rilievo nell’amministrazione pubblica rifiuta di sottostare al diktat mafioso o si rende “inavvicinabile”, la mafia è “costretta” a eliminarlo. Il primo delitto eccellente, quello di Michele Reina, fu ordinato proprio perché l’allora segretario provinciale della Dc aveva deciso di non valorizzare gli appalti riconducibili alla mafia. Fu ucciso, e subito arrivò la rivendicazione “intestata” a una sigla terroristica di estrema sinistra. Col tempo la mafia ha cambiato le etichette: dai Nar alle Brigate Rosse, fino alla cosiddetta “Falange Armata”.
Nel 1991, quando il governo Andreotti – con l’ausilio di Falcone – dichiarò guerra ai corleonesi attraverso leggi durissime, Totò Riina deliberò la strategia mafioso-terroristica, includendo persino le stragi sul Continente. Giovanni Falcone, come ricordano tutte le sentenze, divenne ancora più pericoloso quando annunciò che, tramite la Procura nazionale Antimafia, avrebbe coordinato le indagini su tutti gli appalti pubblici illeciti, in modo che non sarebbero potuti sfuggire nemmeno gli illeciti delle grandi imprese del Nord.
“Questo ci vuole consumare tutti”, affermarono sia Buscemi sia Pino Lipari (personaggi indicati da “mafia-appalti”), secondo quanto riferito da Angelo Siino. Dalle sentenze di Capaci e di via D’Amelio fino a quella d’appello sulla “trattativa”, emerge che Cosa nostra e l’intero mondo politico-imprenditoriale entrarono in allarme. Il pentito Antonino Giuffrè addirittura dichiarò che Paolo Borsellino, sul fronte “mafia-appalti”, era diventato ancora più “pericoloso” di Falcone. Dai documenti trovati nel suo ufficio, scopriamo che Borsellino stava ricostruendo ogni filo.
Appena uscito nelle librerie, il libro di Vincenzo Ceruso “Paolo Borsellino. La toga, la fede, il coraggio” (edizioni San Paolo) con un documento inedito, racconta che tra la strage di via D’Amelio e quelle continentali, tutto il gotha di Cosa nostra si riunì per discutere degli appalti. Interessa approfondire?
La pista nera rimane una bufala
Per concludere, al termine della trasmissione, Sigfrido Ranucci ridicolizza l’articolo del “Dubbio” che smentisce la pista nera. Da allora nulla è cambiato: i personaggi riproposti nel servizio sono stati rinviati a giudizio dalla Procura nissena, e il documento che proverebbe la presenza di Stefano Delle Chiaie a Capaci è stato cestinato per la sua totale mancanza di valore probatorio.
La grande “novità” emersa dall’ultima puntata di Report consiste nell’apprendere che un giornalista siciliano si ricorda – forse – di aver visto Delle Chiaie a Palermo nel marzo 1992. Era il periodo elettorale, ed è noto come Delle Chiaie si adoperasse per il progetto politico – totalmente fallimentare – delle Leghe del Sud. Ma se pure il terrorista nero fosse stato davvero a Palermo in quel periodo, cosa si dimostrerebbe? Che Delle Chiaie avrebbe partecipato all’esecuzione della strage di Capaci? Sono sicuro che nemmeno Ranucci ci crede sul serio.