Il documento dell’Accademia dei Lincei sul fine vita è presentato come un contributo tecnico, indirizzato al legislatore al fine di dotare il Paese di una legge sicura ed efficace. Da un’accademia scientifica ci si aspetterebbe qualcosa di meno assertivo ed esoterico, stante la natura eticamente dibattuta del tema e leggibile da cittadini con una cultura media. Un documento scritto con l’intento dichiarato dovrebbe giustificare e dire quali risultati, positivi o negativi, si possono prevedere su basi fattuali e non speculative, seguendo una o l’altra strada, tra le opzioni possibili.

Se si ragiona solo in modi risoluti, si fa del diritto paternalista, o politica. Si dovrebbe forse dire che fare una legge in materia è importante sulla base dell’epidemiologia medica del fine vita, dei dati empirici relativi al modo in cui avvengono le scelte individualmente e come sono governate nei Paesi senza leggi e in quelli dotati di leggi, considerare in che modo hanno funzionato i criteri che sono stati adottati da altri Paesi che hanno legalizzato l’aiuto a morire, eccetera. Il documento da un lato dice di non voler entrare in questioni teoriche e quindi prendere posizione su aspetti controversi, d’altro canto si esprime sulle implicazioni del personalismo costituzionale, sulle cure palliative, sulla natura della scelta da parte del paziente, sul ruolo del giudice, eccetera.

I Lincei dicono che esiste il diritto di rifiutare un trattamento, ma “che questo non significa rinunciare alle cure palliative”. Cosa voglia dire non è chiaro, dato che le cure palliative sono trattamenti controllati. Le cure palliative sono forse pensate come un sistema per prevenire le richieste di aiuto a morire? Se si guarda al di sopra dell’ombelico italiano, si scopre che i Paesi che hanno i migliori sistemi di cure palliative sono quelli dove l’eutanasia è legalizzata: Olanda, Belgio e Canada – fonti, Global Atlas of Palliative Care 2020 e Oecd – Heath at a Glance 2023. In questi Paesi le cure palliative non sono brandite contro l’aiuto a morire, ma sono una scelta sullo stesso piano, per cui i pazienti posso prendere diverse direzioni se intendono concludere la loro esistenza, sapendo che le strade possibili sono percorsi efficienti, sicuri e collegati.

Il documento si sofferma su come governare le procedure decisionali in modi medicalmente e giuridicamente validi. La questione è affrontata in astratto, sul piano della definizione delle condizioni cliniche ritenute dirimenti e dell’accertamento della volontà “autentica” di chi fa la richiesta. La freddezza del ragionamento contrasta con la variabilità e individualità irriducibili di ogni situazione: il fine vita di chi è avviato a morire per sclerosi multipla è diverso da quello di colui che sta morendo per carcinoma epatocellulare avanzato o di chi sta per entrare nella dolorosa terra incognita della demenza da Alzheimer, eccetera.

L’aiuto a morire, in una società e con una medicina più complesse di quelle di un secolo fa, dovrebbe essere visto come parte integrante delle cure o dei trattamenti: se una malattia ha raggiunto gradi di sofferenze, fisiche e psicologiche, intollerabili (a prescindere se la morte sia imminente o non prevedibile nel tempo) e se il dovere del medico è di trattare la condizione clinica o lenire le sofferenze, in ultima istanza è un’opzione nel quadro delle possibili scelte cliniche, quando il paziente la identifica come soluzione preferita della propria condizione.

Il documento dice che l’aiuto a morire fornito dall’esterno deve valere solo per coloro che non sono in grado (tecnicamente?) di farlo da soli? Perché mai? Coloro i quali sarebbero in grado tecnicamente di “suicidarsi” da soli sono forse figli di una Dio minore? Una persona in fase terminale dovrebbe poter scegliere l’opzione che preferisce in termini di aiuto a morire, tanto più che, come dicono i Lincei, non vi è differenza sul piano morale tra condotte che hanno come risultato il decesso.

Lascia perplessi il fatto che se fosse seguita l’indicazione del documento, l’Italia sarebbe l’unico Paese, dove viene legalizzato il suicidio medicalmente assistito, che attribuisce al giudice un ruolo decisionale preventivo in ordine alla accettazione della richiesta di aiuto a morire. Non se ne comprende la ragione. Forse così la “condizione giuridica” per la decisione, sottrae l’aiuto morire al suo esclusivo significato medico? Anche se si dice che il giudice non dovrebbe mettersi contro il parere del medico, va de plano che si tratta di wishful thinking. In tutti i Paesi con leggi in materia, il giudice entra in gioco a valle, quando vi siano denunce di abusi, e, preventivamente, solo nei casi vi siano incertezze sulla volontà del richiedente.

Avendo seguito da vicino il dibattito in Francia, spicca che qui, a parte l’Associazione Luca Coscioni, nessuno ascolta o si rivolge alle persone concrete. La discussione si svolge in forme astratte o paternalistiche o da resa dei conti – tipico dei politici italiani – ovvero lasciando prefigurare scenari desolanti e ancor più dolorosi di quelli attuali.