L’ennesimo scandalo che travolge la Direzione nazionale antimafia è solo l’ultimo tassello di un organismo ormai lontano anni luce dall’idea originaria di Giovanni Falcone. Dalle audizioni al Csm del 1992, quando furono sentiti tutti i magistrati dell’allora procura di Palermo, emerge che Paolo Borsellino affermò come la Procura nazionale potesse funzionare solo con Falcone. Fu profetico. Bisogna sempre contestualizzare.

Falcone si era accorto che, con l’imposizione di una visione parcellizzata del fenomeno mafioso, non sarebbe stato possibile da un’unica sede giudiziaria ripetere quanto avvenuto nella fase originaria del maxiprocesso. Ebbe l’occasione di lavorare al ministero di Grazia e Giustizia, dove si dedicò soprattutto allo studio di un organismo giudiziario capace di ricreare, anche se con metodi diversi, quelle condizioni che erano alla base della filosofia del pool antimafia. La sua visione diventa ancora più chiara durante l’intervento del 1991 a Castel Utveggio a Palermo, pochi mesi dopo il suo insediamento al ministero.

Parlando del grave condizionamento mafioso sugli appalti pubblici e del coinvolgimento di imprese nazionali del Nord, disse espressamente che tutte le procure, visto il rilievo nazionale della questione, avevano bisogno di un coordinamento. Falcone concepì così un organismo in grado di offrire una visione d’insieme rispetto alle singole parti dei vari processi sull’organizzazione mafiosa. L’idea fu duramente avversata, soprattutto dai colleghi: basti pensare all’intervento di Roberto Scarpinato, in un’assemblea dell’Anm coordinata da Borsellino stesso sul finire del 1991 (disponibile su Radio Radicale), dove denunciava il rischio di un’ingerenza politica nel lavoro della magistratura. Non era l’unico, ma l’espressione di un malessere diffuso tra i togati.

Nei fatti, la Procura nazionale antimafia, privata di Falcone, è diventata altro. Spesso ha assunto un ruolo di “mediazione”. Come non ricordare, nel 2011, il contrasto tra gli allora pm nisseni, guidati da Sergio Lari, e la Procura di Palermo sulla vicenda di Massimo Ciancimino, futuro superteste del processo sulla trattativa Stato-mafia? Caltanissetta aveva inquisito Ciancimino per calunnia, poi Palermo lo inquisì per un’altra calunnia, ai danni dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro. “Non capisco come siano diventati competenti i colleghi di Palermo: esprimo tutto il mio sconcerto”, denunciò Lari. Intervenne Pietro Grasso, allora Procuratore nazionale, per ricomporre la frattura e far firmare una tregua.

Ruolo di mediatori, ma anche – e qui la nota dolente – di ingerenze. «È doveroso premettere che il medesimo (pentito Vito Lo Forte, ndr), prima di tale interrogatorio, era stato più volte ascoltato sullo stesso tema, sempre da un magistrato della Direzione nazionale antimafia; va inoltre segnalato che nei verbali illustrativi e negli interrogatori precedenti non aveva mai fatto cenno, neppure genericamente, alle circostanze di cui parlava ora in modo così dettagliato». È uno dei passaggi della richiesta di archiviazione della Procura di Catania del 2016, in merito alla vicenda di Giovanni Aiello, detto “Faccia da mostro”. In sostanza, come denunciato anche dalla Procura di Caltanissetta, i pentiti cominciavano a ricordare dettagli solo dopo gli interrogatori con magistrati della Dna. Un’invasione di campo, a detta dei magistrati delle due procure, che creò serie difficoltà.

Il caso arrivò al Consiglio superiore della magistratura: il magistrato coinvolto era Gianfranco Donadio. Nel libro “Lobby e Logge” di Luca Palamara e Alessandro Sallusti si scopre che il Csm assolse Donadio dalle accuse di aver interrogato i pentiti in carceri non di sua competenza, spiegando che agiva probabilmente per conto di Pietro Grasso, allora Procuratore nazionale e già presidente del Senato. «Si creò un conflitto tra i procuratori ordinari, che accusavano Donadio di invasione di campo non autorizzata, e la seconda carica dello Stato, con il Csm chiamato a dirimere una questione oggettivamente anomala», rivela Palamara. L’ex magistrato aggiunge: «Grasso non ama gli schizzi e per noi al Csm fu una pratica molto delicata, perché Donadio sosteneva che quanto fatto fosse condiviso da Grasso».

Sulla vicenda aprì un’inchiesta anche la Procura generale della Cassazione, sollecitata dai colleghi imbufaliti. Alla fine, il Csm convocò Grasso, che spiegò come si trattasse di prerogative della Direzione nazionale antimafia, incluse attività con persone legate ai servizi segreti. Il Csm non sollevò obiezioni e Donadio fu “salvato”, venendo solo trasferito a Lagonegro. Condannarlo avrebbe significato additare anche Grasso e la Dna. Il problema è che, senza una visione autentica, la Procura nazionale, arruolando magistrati mediatici e sotto la spinta di teorie poi rivelatesi fallimentari – basti pensare alla cosiddetta “pista nera”, nata da un impulso della Direzione nazionale antimafia – ha consumato anni e risorse per poi archiviare.

Infine, le fughe di notizie riservate. Tra il 2018 e il 2022 il finanziere Pasquale Striano – secondo la Procura di Perugia – avrebbe consultato abusivamente per circa 800 volte banche dati segrete della Direzione nazionale antimafia, fornendo informazioni riservate ai giornalisti. Bastò l’infedeltà del finanziere e forse di un magistrato per rendere la Procura nazionale un colabrodo. Paolo Borsellino aveva ragione: quell’organismo poteva funzionare solo con mente geniale e spirito pragmatico, come quella di Giovanni Falcone. Senza questa “spina dorsale”, la Procura nazionale antimafia resta un palcoscenico di veleni e incompiutezze.