Giù le mani dalla capa di gabinetto. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è furioso. Non tanto per le accuse che il Tribunale dei Ministri ha mosso contro di lui, quanto per quelle – più pesanti – rivolte alla sua più fidata collaboratrice: Giusi Bartolozzi. Secondo le giudici, Bartolozzi avrebbe avuto un ruolo tutt’altro che marginale nel pasticciaccio che ha portato alla liberazione del generale libico Nijeem Osama Almasri. Un caso che, per le magistrate, contiene elementi da reato ministeriale. E così, come Giorgia Meloni prima di lui, Nordio ha deciso di esporsi: «È puerile pensare che il mio capo di gabinetto abbia agito in autonomia».

La linea è chiara: blindare Bartolozzi, bloccare ogni tentativo di trascinarla in un procedimento penale e chiudere il cerchio dentro il perimetro del giudizio parlamentare. «Dopo una continua, pubblica e ininterrotta diffusione di notizie sul ruolo della mia capogabinetto - ha dichiarato Nordio - ho letto la motivazione del Tribunale dei Ministri e le illazioni che ne hanno tratto alcuni giornali. Ribadisco che tutte, assolutamente tutte le sue azioni sono state esecutive dei miei ordini, di cui ovviamente mi assumo la responsabilità politica e giuridica. La sola ipotesi, che ho appreso con raccapriccio, che un’eventuale incriminazione della mia collaboratrice sia un escamotage per attribuire alla giurisdizione penale un compito che ora è squisitamente parlamentare mi fa inorridire, perché costituirebbe una strumentalizzazione politica della Giustizia. Mi auguro che queste insinuazioni finiscano, e che il Parlamento, secondo la Legge costituzionale, si pronunci definitivamente sul ruolo del mio ministero, di cui, ripeto, sono l’unico e responsabile capo». Ma il nervosismo a via Arenula è palpabile. Per Nordio, e per molti nel governo, quella in atto sarebbe una strategia mirata: colpire Bartolozzi per colpire lui, e con lui il cuore stesso della riforma sulla separazione delle carriere. Una vendetta, sospettano, da parte della magistratura associata. Non a caso, qualche giorno fa c’è stato anche uno scontro tra lo stesso Nordio e Cesare Parodi, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. La miccia era stata accesa da Giorgio Zanchini, conduttore di Radio anch’io, che aveva chiesto a Cesare Parodi se un’eventuale iscrizione di Bartolozzi potesse avere ripercussioni anche sugli altri membri del governo. «Dipende cosa lei intende per indirettamente - aveva replicato il presidente del sindacato delle toghe -, nel senso che un processo dove vengono accertati, magari in via definitiva, certi fatti ha evidentemente una ricaduta politica, neanche tanto indiretta, sulle persone coinvolte». Nordio, letti i titoli, aveva risposto in maniera seccata, dicendosi «sconcertato» e bollando le parole di Parodi come una indebita invasione di campo. Parodi aveva chiarito di non aver mai nominato la capo di gabinetto. Ma non è bastato per convincere il governo che si sia trattato di un misunderstanding: al ministero si ha la sensazione che ci sia uno «schema». Un tentativo «inquietante» di colpire, per portare allo sfinimento le figure più importanti dietro la separazione delle carriere.

Il punto è tutto qui: chi ha preso davvero le decisioni nei giorni in cui Almasri veniva liberato, invece che estradato alla Corte penale internazionale? Secondo Nordio, ogni azione di Bartolozzi era «strettamente esecutiva». Ma i giudici non sono convinti: in un passaggio durissimo, definiscono la versione della capo di gabinetto «contraddittoria, inattendibile e, anzi, mendace». Per loro è illogico che abbia deciso da sola di trattenere un documento tecnico importante senza avvisare il ministro. Nordio nega con forza: «È logicamente insostenibile. E infatti non è successo». Ma dietro questa schermaglia verbale, si muovono dossier e responsabilità. Bartolozzi, infatti, è finita più volte al centro delle polemiche, anche interne. Diversi dirigenti chiave del ministero hanno lasciato polemicamente il loro incarico per dissidi con lei. Tra questi anche Luigi Birritteri, che avrebbe cercato di attivare l’estradizione di Almasri predisponendo l’atto da inviare alla Corte d’Appello. Un atto, però, che non è mai partito e che Nordio non ha mai ricevuto.

Gli elementi raccolti dal Tribunale dei Ministri, secondo molti, potrebbero fondare una possibile iscrizione di Bartolozzi sul registro degli indagati. Ma non è detto che la via da seguire sia quella della giustizia ordinaria: in base all’articolo 4 della legge costituzionale 219 del 1989, infatti, il diniego dell’autorizzazione può essere esteso anche a chi ha agito «in concorso» con esponenti di governo, «anche se non ministro né parlamentare». Mentre in base all’articolo 5 della legge Costituzionale 1/1989, l’autorizzazione prevista dall’articolo 96 della Costituzione spetta alla Camera cui appartengono le persone nei cui confronti si deve procedere, anche se il procedimento riguardi altresì soggetti che non sono membri del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati. Norme che lasciano più di uno spiraglio per allargare lo scudo anche a Bartolozzi. La situazione, però, sarebbe più complicata se la capa di gabinetto venisse indagata per reati diversi da quelli dei ministri. E, dunque, non è escluso che si possa arrivare ad un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Ma questa è un’altra storia. E a quel punto, forse, si sarà già in piena zona referendum, con la campagna elettorale nel suo vivo. In questo scenario, Bartolozzi rischia di diventare il punto debole per attaccare Nordio, e con lui tutta l’impalcatura della riforma. Il ministro ne è consapevole, per questo ha scelto di alzare i toni. Probabilmente, anche per evitare che il caso si trasformi da polemica politica a vero e proprio processo penale. E, per il governo, a un boomerang istituzionale in piena stagione elettorale.