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La cronaca ci mette spesso di fronte a vicende che sembrano appartenere a mondi distinti, ma che in realtà parlano alla stessa coscienza collettiva. È il caso della recente storia di Diego, un giovane pitbull lasciato morire di fame dal suo proprietario il 18 luglio scorso in un garage di Fabbrico e dell’ormai tristemente nota vicenda della piccola Diana, la bambina di 18 mesi abbandonata per sei giorni in casa dalla madre, Alessia Pifferi, nell’estate del 2023.
Due storie distanti per natura, ma accomunate da un filo rosso: il fallimento della tutela verso chi non può difendersi da solo. Il caso di Diego ha scosso l’opinione pubblica per la brutalità e l’indifferenza con cui un essere senziente è stato condannato a una fine lenta e crudele. Eppure, a differenza di quanto accadeva fino a qualche decennio fa, oggi esistono norme che puniscono penalmente chi maltratta o abbandona un animale.
Il maltrattamento animale è punito dal nostro Codice penale sin dal 1931, ai sensi dell’art. 727, riconoscendo in via normativa ciò che per molti era già evidente sul piano morale. La legge 189 del 2004 ha segnato un punto di svolta, introducendo la fattispecie di abbandono di animali. Gli animali non sono “cose”, ma esseri viventi capaci di soffrire. Il caso di Diego, quindi, non è solo una tragedia, ma anche un indicatore di un cambiamento di paradigma giuridico e culturale.
Proprio questo cambiamento può diventare lo spunto per riflettere su un’altra tragedia, ben più complessa e dolorosa: quella di Diana. La sua morte per abbandono ha provocato sgomento, ma ha anche innescato un dibattito teso, spesso dominato da giudizi morali e risposte emotive. Alessia Pifferi è stata condannata all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Milano.
In un tempo in cui si riconoscono — giustamente — diritti agli animali, ci si interroga sul fatto che, paradossalmente, l’individuo imputato nei casi più eclatanti venga giustiziato, di fatto, dalla pressione dell’opinione pubblica e dall’indignazione mediatica: queste travolgono la presunzione di innocenza e la serenità del processo. Chi si macchia di un crimine percepito come “imperdonabile” diventa non solo colpevole, ma indegno di essere ascoltato, compreso, difeso. Gravissimo.
Ecco allora che la questione si sposta dal piano della giustizia penale a quello della tenuta democratica: quanto è saldo il nostro sistema di garanzie quando ci troviamo di fronte a quello che viene incasellato come “orrore”? La civiltà giuridica si misura proprio su questo: sulla capacità di garantire diritti che non sono solo per chi li merita, ma anche — e soprattutto — a chi appare indegno.
Tutelare gli animali, dunque, non è solo un gesto di civiltà verso altre specie: è anche una spinta a riflettere sull’umanità che mettiamo nelle nostre leggi. È il segno di una sensibilità che si espande, che riconosce sofferenza dove prima vedeva solo funzione o possesso. Ma non possiamo permettere che questa stessa sensibilità venga meno quando si tratta di garantire i fondamenti dello Stato di diritto.
Il rischio è che s’inverta la rotta: che si allarghi la tutela per alcuni soggetti, ma si restringano le garanzie per altri, in nome della vendetta sociale. Il parallelismo che ho voluto compiere tra Diego e Diana non è certo sul piano della gravità, sarebbe assurdo e insensato. Ma entrambi i casi ci mettono davanti a una domanda: chi protegge chi non può parlare? Chi difende chi non ha strumenti per salvarsi o spiegarsi? E se è vero che la legge ha cominciato a dare voce anche agli animali, non possiamo ignorare la sacralità inviolabile del diritto alla parola — e alla difesa — di ogni essere umano, anche il più controverso.
Infine, è doveroso ricordare che il diritto alla difesa non è una concessione, ma un pilastro né sacrificabile né comprimibile: riguarda tanto l’innocente, quanto il colpevole (termini qui usati in modo volutamente atecnico). Senza difesa non c’è giusto processo. Senza giusto processo, non c’è giustizia. E senza giustizia, ogni diritto, anche quello degli animali, diventa fragile, esposto al vento delle emozioni, dell’opinione, della piazza.
Abbiamo allargato la frontiera dei diritti molto più di quanto i Padri Costituenti potessero immaginare. Abbiamo imparato a includere, a proteggere, a riconoscere. Ma questa maturazione rischia di essere sterile se dimentichiamo il cuore stesso del diritto: garantire a ciascuno, anche al peggiore, la possibilità di essere ascoltato e giudicato secondo legge.