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Donald Trump
Il limite del piano di Trump è che vuole riunire due problemi, di uguale importanza ma di differente urgenza. Da un lato c’è il qui e ora: vale a dire terminare la guerra a Gaza, ripristinare un flusso di aiuti sufficienti e, in generale, fermare lo stillicidio dei massacri. Dall’altro c’è il poi, vale a dire, l’assetto che avrà Gaza quando il primo obiettivo, riassumibile nel cessate il fuoco, sarà raggiunto. L’aver predisposto un piano che contempla entrambe le questioni, l’oggi e il domani, lo rende fragile parché la non accettazione dei piani per il futuro riassetto dell’area rischia di compromettere l’obiettivo più urgente.
Sul primo aspetto c’è un ampio accordo internazionale, perché già col voto ONU che ha approvato la Dichiarazione di New York molti stati arabi e islamici hanno dato l’assenso, e segnatamente l’Arabia, la Turchia e la Lega Araba tra gli altri. Prevede, tra l’altro, la liberazione degli ostaggi, il disarmo di Hamas e la sua esclusione da qualunque ruolo di governo di Gaza e, ovviamente il cessate il fuoco e nessuna deportazione della popolazione palestinese. Su questo, come detto, l’accordo è ampio: questi punti sono stanzialmente presenti nella Dichiarazione di New York, così come nel piano di pace di Trump.
Poi c’è il secondo aspetto. Una volta raggiunto il cessate il fuoco, come verrà ridisegnata Gaza? E qui le differenze vi sono, e notevoli. Il piano di Trump, per esempio, relega in un ruolo del tutto marginale l’ANP di Abu Mazen, mentre per la Dichiarazione di New York doveva essere quest’organizzazione a sostituire Hamas nella striscia. Per la Dichiarazione che, non dimentichiamo, era stata accettata sin dal primo momento dall’Italia, il piano di ricostruzione doveva essere quello arabo, nel piano USA diviene il piano Trump, da lui supervisionato senza ulteriori specificazioni. Lo Stato palestinese, nella Dichiarazione, era un territorio che comprendesse sia Gaza che Cisgiordania, nel piano di Trump di Cisgiordania non si parla e la prospettiva di uno Stato palestinese viene rimandata ad un nebuloso futuro. Sul domani, insomma, sul riassetto dell’area, le posizioni sono molto variegate.
Tant’è che i Paesi arabi, pur accettando e accogliendo l’intervento USA nella questione, non mancano di sottolineare che la prospettiva deve comunque essere quella dei due Stati, prospettiva che Netanyahu non vuole prendere nemmeno in considerazione.
Il piano di Trump, nella sua interezza, quindi, non può che essere controverso, anche perché affida il futuro di Gaza ad un gruppo di tecnocrati supervisionati da Trump e Blair senza che i palestinesi, a partire dall’ANP, abbiano un qualche ruolo. Ma per quanto riguarda la tregua, ovvero l’immediato cessate il fuoco, le differenze non sono insanabili e il rischio è che la non accettazione del piano nella sua interezza faccia anche naufragare ogni accordo relativo al qui e ora.
La diplomazia internazionale dovrebbe quindi riuscire a muoversi su due piani. Uno contingente, finalizzato a dar respiro alla popolazione di Gaza, e che comprenda cessate il fuoco e gestione degli aiuti.
L’altro, di orizzonte diverso e più vasto, riguarderebbe il futuro dell’area e dello Stato palestinese. Voler far dipendere il primo urgentissimo aspetto, il cessate il fuoco, dal secondo, cioè il destino futuro di Gaza, rischia di procrastinare una guerra che sarebbe dovuta terminare ormai da troppo tempo.