La verità è che di fronte all’attacco alla Flotilla Giorgia Meloni ha sprecato l’ennesima occasione: le manca ancora quell’ultimo miglio che separa il capo politico dal profilo dello statista. Perché quel passo in più richiede freddezza, lucidità, controllo della scena: non la reazione viscerale che funziona in campagna elettorale e nel pantano del cortiletto di casa ma naufraga quando il gioco si fa serio. È un limite, certo. Ma, paradossalmente, in questa stagione di populismi potrebbe persino funzionare: il populismo ha infatti bisogno del nemico, e lei (ma non solo lei) il nemico lo cerca, lo fabbrica, lo mette in vetrina. Stavolta però il nemico aveva il volto (e il passaporto) di decine di cittadini italiani finiti nel mirino di una potenza straniera e la premier ha il dovere di difenderli.

Ma qui è il caso di dirla tutta, senza ipocrisie. La Flotilla non è mai stata un’operazione umanitaria: chi è salito a bordo non pensava di scaricare neanche un grammo di farina a Gaza, e lo sapeva ancora prima di mollare gli ormeggi. L’obiettivo era – ed è – politico: forzare Israele alla reazione, trasformare un blocco in incidente internazionale, inchiodare il mondo al suo immobilismo mentre Gaza viene stritolata. E in piena coerenza con questo progetto, ieri la Flotilla ha rifiutato ogni mediazione decidendo di continuare a far rotta su Gaza. Posizione radicale, sì, ma non per questo illegittima, purché si abbia il coraggio di chiamarla col suo nome.

Insomma, siamo inchiodati dentro una partita tutta simbolica, giocata sulla pelle dei civili di Gaza: la Flotilla porta aiuti che non arriveranno mai; Macron, Starmer e Lula riconoscono uno Stato palestinese che non esiste e non esisterà a breve, ma intanto i missili partono, le macerie crescono, gli uomini, le donne e i bambini continuano a morire. La verità è che tutta la politica recita esclusivamente sul palcoscenico dei simboli. Sarebbe ora di rompere l’incantesimo, di tornare al piano reale. Perché il sangue di Gaza, quello sì, è terribilmente vero.