La violenza sulle donne rappresenta una delle più gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, addirittura oltre il tema di genere: è una questione che investe l’intera società, minando i principi di uguaglianza, rispetto e dignità della persona che sono alla base della convivenza civile. La scelta di privilegiare non solo la repressione, ma anche la prevenzione e l’educazione, testimonia una visione lungimirante e responsabile. Prevenire la violenza significa agire sulle cause profonde, promuovere il cambiamento culturale e offrire strumenti concreti per riconoscere e contrastare i segnali di disagio e rischio.

Quando si parla di contrasto alla violenza sulle donne, è inevitabile interrogarsi, innanzitutto da giuristi, sull’efficacia dell’apparato normativo attuale, oggi molto ricco ed articolato. La domanda è dunque se il nostro sistema giuridico sia davvero idoneo a rispondere a questa emergenza sociale; soprattutto se fosse davvero necessaria l’introduzione di una fattispecie autonoma di reato come il “femminicidio”.

Il nostro ordinamento già prevedeva strumenti e fattispecie idonee a punire severamente gli omicidi e le violenze di genere. Il rischio di una nuova etichetta potrebbe avere un effetto più simbolico che sostanziale, senza incidere realmente sulle dinamiche profonde del fenomeno. Del resto, l’inserimento di nuove norme penali, come il dato esperienziale ci insegna, non sempre si traduce in una maggiore tutela delle vittime o in una reale diminuzione dei reati.

Le norme, per quanto severe o dettagliate, non sono mai risolutive da sole. La vera sfida è culturale e sociale: è la costruzione di comportamenti, di consapevolezza, di rispetto reciproco che può produrre un cambiamento duraturo.

Senza un lavoro profondo sull’educazione, sulla prevenzione, sulla promozione di una cultura della parità e del rispetto, il rischio è che le norme restino lettera morta o vengano percepite come risposte emergenziali e poco incisive. La giustizia può riequilibrare un torto, ma la ricostruzione dei legami sociali lesi dalla commissione del reato non appartiene e non può appartenere alla giurisdizione.

Un aspetto fondamentale è allora quello del linguaggio. Il linguaggio giuridico non è mai neutro: riflette la visione del mondo di chi lo utilizza e può, consapevolmente o meno, perpetuare stereotipi e discriminazioni, soprattutto di genere. Il processo penale è ( anche) una “civiltà di parole”: le categorie e le definizioni che il diritto crea non si limitano a descrivere la realtà, ma la plasmano, la influenzano, la trasformano.

La resistenza al cambiamento linguistico spesso nasconde la persistenza di pregiudizi e stereotipi che, anche in ambito giudiziario, possono tradursi in vittimizzazione secondaria e ostacolare la piena realizzazione del principio di imparzialità. In questo senso, l’introduzione del reato di femminicidio non solo richiama l’attenzione sul fenomeno, ma può anche favorire un cambiamento culturale, spingendo a una riflessione critica sul linguaggio, sulle categorie giuridiche e sulle rappresentazioni sociali della violenza di genere. È un invito a rinnovare non solo le norme, ma anche il modo in cui pensiamo e parliamo di questi temi, per costruire una giustizia davvero più equa e rispettosa della dignità di tutte le persone.

La vittima dei reati è tale a seguito dell’accertamento della responsabilità individuale dell’imputato, e dunque della prova certa della sussistenza del reato. Il processo mediatico, in particolare, contribuisce a “sacralizzare” impropriamente la figura della vittima, rischiando tra l’altro di influenzare anche incoscientemente l’autorità giudiziaria e, quindi, di alterare la parità tra le parti. In questo contesto, la condanna diventa spesso un esito atteso, mentre l’assoluzione è percepita come una negazione della giustizia.

Sebbene l’attenzione verso la vittima risponda a istanze legittime, essa può condurre a una deriva emotiva del processo, dove la pena non è più proporzionata al reato, ma calibrata sull’intensità del dolore, per definizione soggettivo e incommensurabile. In tale scenario, non va sottovalutato il rischio di un “wokismo giudiziario”, ovvero l’utilizzo della giustizia penale per perseguire finalità politico- sociali. La pressione sociale può indurre i magistrati a cercare di soddisfare le richieste emotive delle vittime o di affrontare ingiustizie e discriminazioni attraverso le sentenze.

La violenza di genere si manifesta prevalentemente all’interno di relazioni interpersonali complesse, spesso di natura intrafamiliare, dove si intrecciano dinamiche affettive, dipendenze emotive e giochi di potere.

Questi contesti, per loro natura, sono caratterizzati da una forte componente emotiva e da profili psicologici delicati, che rendono la ricostruzione della verità storica un’operazione complessa e tutt’altro che lineare. In presenza di vissuti personali così intensi, la giustizia è chiamata a muoversi con umiltà e prudenza. Sentimenti ed emozioni costituiscono un materiale umano “magmatico”, che impone attenzione alle sfumature, ascolto empatico e sospensione del giudizio.

Non basta garantire diritti formali: occorre creare le condizioni affinché ogni donna possa sviluppare una coscienza libera, capace di orientarsi tra pressioni culturali, aspettative familiari e stereotipi sociali.

Educare alla libertà significa insegnare a scegliere, e scegliere significa decidere secondo il proprio pensiero, non secondo modelli imposti o condizionamenti esterni. Questa è la vera sfida: rendere ogni donna libera di essere sé stessa, di pensare, di scegliere il proprio compagno ogni giorno e anche di lasciarlo nelle modalità che ritiene più opportune, e non moralisticamente sindacabili da un giudice e senza alcuna conseguenza fisica o morale. Ed è questo il compito più alto che ciascuno di noi deve assumere e sentire come una propria responsabilità.

*Estratto del discorso pronunciato al Convegno “Dall’educazione alla prevenzione. Le istituzioni a confronto per un efficace contrasto alla violenza sulle donne”