A Roma spuntano come funghi d’autunno i comitati di quartiere; non per difendere scuole, parchi e teatri, ma contro le piste ciclabili, contro l’ampliamento dei marciapiedi, contro la pedonalizzazione delle strade. È un’alleanza trasversale, che unisce quartieri ricchi e sobborghi popolari, professionisti e bottegai, pensionati e trentenni col SUV aziendale.

Tutti infuriati con l’amministrazione comunale che tenta, faticosamente, di avvicinarsi agli standard delle altre capitali europee, togliendo spazi alle automobili per restituirli ai pedoni. Roba da radical chic, da benpensanti. L’auto, a Roma, non è un mezzo di trasporto da utilizzare solo per stretta necessità, ma un prolungamento metallico dell’ego. La maghina, come viene chiamata dentro il raccordo, è l’oggetto di culto di una religione primitiva e tossica. E il parcheggio un diritto divino, un’appendice del proprio appartamento, l’unità di misura della dignità urbana.

Si giudica il quartiere in base alla facilità con cui “si trova posto” non per la sua vivibilità, per gli spazi verdi, per l’offerta culturale. Trovare parcheggio “sotto casa” è un sacramento, chi non ci riesce maledice il sindaco, il traffico, i ciclisti, la destra e la sinistra, il mondo intero. Il 30% del traffico cittadino è causato da chi “cerca parcheggio”, ma guai a suggerire che il problema sia proprio l’eccesso di auto. Per il romano medio, la causa del traffico sono gli altri. Gli altri che guidano, gli altri che non sanno parcheggiare, gli altri che non capiscono che lui “ha fretta”. È un solipsismo motorizzato: ognuno solo dentro la propria corazza di latta, convinto di essere l’unico a dover “fare presto”.

Certo, Roma ha una rete di trasporti inadeguata per le sue dimensioni, appena tre linee di metropolitana e migliaia di autobus perennemente intrappolati nel traffico. Ma è anche la metropoli dell’Ue con più automobili per abitante e quella in cui si commettono più infrazioni stradali, (il 37% dei veicoli è quotidianamente parcheggiato in sosta vietata secondo i dati di Legambiente). Non sarà forse la quantità ciclopica di macchine che occupano le corsie preferenziali, che si arrampicano sui marciapiedi, che bloccano gli incroci perché volevano passare con il semaforo giallo e via dicendo a paralizzare cronicamente la mobilità cittadina?

Il romano ama la sua macchina ma ne è schiavo, come un tossicodipendente e come un tossicodipendente perde contatto con la realtà, con il buon senso. Prende la Toyota per andare a comprare i croccantini “maxi” per il labrador a cinquecento metri da casa, poi la lascia in doppia fila (la sua zona grigia della morale) con le quattro frecce accese come se fossero una cauzione per poter infrangere il codice stradale. «Sto cinque minuti», «non dà fastidio a nessuno», «so’ solo due ruote sopra il marciapiede».

Intanto Roma si è trasformata in una distesa di lamiere immobili, dal Colosseo a Trastevere ogni paesaggio è incorniciato da un cofano metallizzato, mentre l’urlo dei clacson è la sgraziata colonna sonora della frustrazione urbana.

La verità è che Roma ha un problema di mentalità. Mentre Parigi chiude i boulevard alle auto, Madrid trasforma i parcheggi in piazze con giardini e fontane e Berlino riempie le strade di biciclette vietando l’accesso ai motori, il romano medio protesta se si costruisce una rotonda o se aggiungono tre colonne per la ricarica di veicoli elettrici. Nelle altre capitali si discute di mobilità sostenibile; qui, del posto davanti al portone. È la differenza tra chi pensa la città come spazio comune e chi la vive come una succursale del proprio garage. Tra chi protegge i propri centri storici e chi li lascia in balia a ogni ora del giorno di furgoncini di carico e scarico merci.

In fondo, la fenomenologia del maghinaro è la radiografia impietosa di un’idea di libertà che non sa convivere con il limite. Il romano vuole spostarsi come vuole, fermarsi dove vuole, credendo che la città debba adattarsi a lui, non il contrario. E finché il parcheggio resterà il suo orizzonte, la città resterà ferma anche quando sembra muoversi.

C’è una battuta attribuita a Winston Churchill: «Nel capitalismo ci sono troppe macchine, nel socialismo troppi parcheggi». A Roma siamo riusciti nel miracolo di avere entrambe le cose: troppe macchine e troppi parcheggi, eppure mai abbastanza per saziare la nostra fame d’asfalto e la fede incrollabile nell’unica divinità rimasta, quella con le ruote.