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MASSIMO D'ALEMA POLITICO PRESIDENTE FONDAZIONE ITALIANI EUROPEI
Col traffico di firme ed altro fra le Camere e il palazzaccio romano della Cassazione è ormai cominciato il percorso referendario della riforma costituzionale della giustizia, esauritosi quello parlamentare. Ferve il dibattito politico, sindacale, culturale, accademico fra e dentro le comunità che vi sono interessate, sicuramente più degli elettori che saranno chiamati alle urne in primavera per confermare o bocciare le modifiche apportate dal Parlamento all’ordinamento giudiziario, e dintorni.
Risulta assordante, come si suol dire in queste occasioni, il silenzio impostosi sulla materia, pur parlando molto di altro, di recente su ben due pagine del Corriere della Sera, una personalità della politica di una certa competenza della materia accumulata nella sua attività di parlamentare e di autorevole esponente, quanto meno, della sinistra.
È Massimo D’Alema, che prima di arrivare al vertice del governo come unico post- comunista nella storia della Repubblica italiana, fu presidente bipartisan di una commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Bipartisan, perché sostenuto anche dall’opposizione allora capeggiata da Silvio Berlusconi, che lo preferì ad altri concorrenti della maggioranza. Nacque anche da quella scelta il personaggio “Dalemoni” inventato da Giampaolo Pansa nelle sue cronache indimenticabili. Robe d’altri tempi, davvero.
In quella commissione lo stesso D’Alema e altri compagni di partito che in questi giorni se ne vantano ancora, dissentendo dal no referendario già anticipato dal Pd di Elly Schlein, aderirono alla prospettiva di una separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che è il perno della riforma intestatasi dal ministro in carica della Giustizia Carlo Nordio, anche se molti considerano altrettanto importanti, se non ancora di più, la separazione parallela del Consiglio Superiore della Magistratura, l’adozione del sorteggio per la composizione e la cosiddetta alta corte disciplinare.
Con e nella quale i magistrati finiranno di giudicarsi, su quel profilo, da soli. Che non è francamente in bel fare per uomini che, dopo avere vinto un concorso, per quanto difficile, per carità, dispongono dei cittadini come nessun altro.
Sarebbe bello, o quanto meno curioso, senza ricorsi alla privacy e simili trattandosi di una personalità politica di rango come la sua, se D’Alema facesse sapere se è rimasto dell’idea di quando fu presidente della già ricordata commissione bicamerale delle riforme, o ha cambiato idea anche lui, come altri della sua parte. E perché? Se per i contenuti della riforma approvata dalle Camere o per non ritrovarsi pure lui in compagnia delle foto di Berlusconi portate in processione dai suoi eredi e amici politici per le strade come il padre più autentico della separazione delle carriere giudiziarie: più ancora del compianto Giuliano Vassalli che la concepì, diciamo così, riformando a suo tempo il processo. Che poi fu messo in Costituzione, con la riforma dell’articolo 111, come “giusto” e svolto “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Parola, ripeto, di Costituzione.
Non è certamente un tapino come il sottoscritto che deve ricordare tutto questo a D’Alema, visto anche - peraltro- che lo ha riconosciuto, pur fra la sorpresa dell’associazione nazionale dei magistrati della quale non ha mai fatto parte, l’ex sostituto procuratore simbolo di “Mani pulite” Antonio Di Pietro. Che lo ha volentieri spiegato, col suo linguaggio ruspante, anche ai lettori del Dubbio.


