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SIGFRIDO RANUCCI
Negli ultimi giorni si è letto da più parti di una proposta di riforma della disciplina in materia di diffamazione. Tra le voci più insistenti si staglia quella di Marco Travaglio che l'ha battezzata “legge Ranucci” che consiste nel condannare chi fa causa per diffamazione a un giornalista al pagamento di un importo pari alla metà del risarcimento richiesto. Si tratta, alla luce di quanto accade nelle aule dei tribunali italiani, di una proposta aberrante che va in una direzione sbagliata e di seguito sono spiegate le ragioni.
Chi scrive, insieme al suo più autorevole collega professore Vincenzo Zeno- Zencovich, ha compiuto una rilevazione delle sentenze in materia di diffamazione emesse negli ultimi anni dal Tribunale di Roma, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Il diritto dell'informazione e dell'informatica edita da Lefebvre Giuffré. Ebbene, dati alla mano, il risultato che ne è derivato è sorprendente: in sette casi su dieci la domanda di condanna è respinta, dunque solamente il 30% delle cause di diffamazione si concludono con una condanna per il giornalista. E, nell'ambito di questo 30%, il 70% dei soggetti beneficiari del giudizio benevolo dei tribunali sono i magistrati.
Se passasse la proposta di “legge Ranucci”, con questi numeri, acquisiti da un osservatorio significativo e privilegiato quale è il Tribunale di Roma, chiunque (non magistrato) si senta diffamato da un articolo giornalistico ci penserebbe mille volte prima di fare causa e i più sicuramente desisterebbero. Oltre alle spese per l'avvocato, alla tassa per iscrivere a ruolo la causa, vi è la concreta probabilità di pagare le spese legali di controparte e soprattutto la metà dell'importo risarcitorio richiesto, cuore della proposta di “legge Ranucci” propugnata da Travaglio.
Quali conseguenze ne deriverebbero? Sicuramente meno cause di diffamazione nelle aule di giustizia, ma, come effetto principale questo risultato: invece di tutelare la libertà di stampa, si rafforza la libertà di diffamare.


