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GIORGIO SPANGHER PROFESSORE ORDINARIO DI PROCEDURA PENALE
La legge di riforma costituzionale dell’Ordinamento giudiziario si avvia ad affrontare la seconda fase di deliberazione che, pur approvata, richiederà per la sua entrata in vigore il passaggio referendario. In questa prospettiva, i due “campi” che si contrappongono - dato che l’esito, pur ritenuto favorevole ai riformatori, non può ritenersi scontato - si organizzano sia mediaticamente (attraverso il ricorso anche a società ed esperti di comunicazione), sia strutturalmente (attivando i comitati destinati a supportare il confronto pubblico), sia politicamente (cercando i necessari supporti nei diversi punti di riferimento: partiti, corpi intermedi, organi di informazione).
Altresì si sviluppano argomentazioni che se da un lato mettono in luce aspetti patologici del rapporto fra giudice e pm destinati a suggestionare l’opinione pubblica, dall’altro agitano i rischi della riforma nella prospettiva di ricadute negative sulle garanzie processuali. Parimenti si mettono in campo personaggi e persone, sia del passato sia del presente, di una certa autorevolezza e percezione di credibilità per supportare le contrapposte opinioni. Il referendum, o meglio, il suo oggetto, è un prodotto che come tale va venduto e comprato.
Nella possibile prospettiva di un ragionamento – frigido pacatoque animo – ancorché anch’esso confutabile, si impongono due domande: perché una riforma dell’ordinamento giudiziario; perché una riforma della Costituzione. Sul primo punto, sul quale si ritornerà anche in seguito, va sottolineato come questa non sia la riforma del processo penale, ma una riforma dell’ordinamento giudiziario. Il suo cuore è la riforma del Csm. Resta infatti inalterato l’art. 112 Cost. (obbligatorietà dell’azione penale) e la modifica dell’art. 104 Cost. rafforza le garanzie per i pm.
La necessità della riforma dell’ordinamento giudiziario incardinato nel Csm è determinata dal fatto che l’ordinamento giudiziario è sostanzialmente quello del 1941 (riforma Grandi-Mussolini), confluito nella Costituzione del 1948 e operativo dal 1956.
Mentre corrispondeva al sistema processuale sostanziale e probatorio penale (1930), ma anche sostanziale e processuale civile (1942) nonché minorile (1934) e penitenziario (1931), quel sistema non è più attuale. Nella visione di Grandi, fautore dell’unità della giurisdizione, pm e giudici rappresentavano solo una articolazione interna della magistratura. Sintomatica la presenza del processo pretorile. Il dato trova preciso riscontro nelle norme costituzionali che fanno riferimento al concetto di autorità giudiziaria (cioè identità fra giudici e pm) come negli artt. 13 e 15 Cost. nonché nel concetto di carcerazione preventiva (ancora art. 13 Cost.).
Il concetto di autorità giudiziaria presente in Costituzione è strutturato nel Csm, dove pm e giudici ne condividono l’essenza. Il dato è alla base del fallimento della riforma del processo penale del 1988, dove veniva introdotto il modello accusatorio in contrasto con quella rappresentazione che costituiva l’essenza del modello inquisitorio.
All’entrata in vigore della riforma del 1988 la dottrina (vedi l’intervista del Financial Times di Vassalli) ne evidenziava l’incongruenza, i rischi, l’incompatibilità. “Questa palese anomalia”, insieme alla legislazione di emergenza nata per fronteggiare i reati di criminalità organizzata e terroristica, ha provocato una involuzione del modello processuale fino ad arrivare alla riforma Cartabia, la quale ha portato la dottrina a parlare di processo a trazione anteriore con tutti i suoi corollari. Per ovviare a ciò era intervenuta la modifica dell’art. 111 Cost. e la previsione espressa di un giudice terzo indipendente e imparziale con l’indicazione di un contraddittorio tra accusa e difesa in condizioni di parità. Sintomatico quanto previsto dall’art. 143 disp.att. c.p.p. relativo alla collocazione delle parti nell’aula di udienza. Invero quella previsione costituzionale non ha mancato di avere conseguenze sulla legge ordinaria e anche su alcune disposizioni costituzionali per effetto di alcune sentenze della Consulta e norme processuali che hanno progressivamente scandito la distanza strutturale tra accusa e difesa e tra accusa e giudice.
Si tratta dunque di “recuperare” questa evoluzione costituzionale e ordinaria all’interno dell’organo di governo autonomo della magistratura tenendo conto del diverso ruolo del pm e del giudice, non solo perché il pm è cambiato (Procura nazionale antimafia, procure distrettuali, procura europea, procura generale di Roma), ma perché processualmente il pubblico ministero non è più quello del codice Rocco e neppure il giudice è lo stesso, ma soprattutto perché nell’evoluzione del modello sono ontologicamente, processualmente e funzionalmente diversi e distanti.
Senza pretesa di completezza si può ricordare che l’istituto della rimessione riguarda solo il giudice ritenuto inidoneo a giudicare in caso di gravi elementi che turbano lo svolgimento del processo; che solo il giudice può essere ricusato mentre il pubblico ministero ha solo la possibilità di astenersi; che i contrasti fra giudici, qualificati come “conflitti”, sono decisi dalla cassazione (giurisdizione) mentre quelli tra pubblici ministeri, definiti “contrasti”, sono decisi dagli uffici di procura; che il giudice è sempre autonomo e indipendente mentre il pubblico ministero gode di autonomia solo in udienza, che qualora l’imputato eccepisca l’incompetenza del giudice, questa è oggetto di una procedura di controllo da parte della Cassazione, mentre “l’incompetenza” del pubblico ministero è sempre sottoposta al controllo degli uffici di Procura.
La netta distinzione strutturale è talmente evidente che in un documento sottoscritto da tutti gli uffici di procura è stato rigettato il modello organizzativo predisposto dal Consiglio Superiore della Magistratura, ricalcato su quello degli uffici giudicanti in quanto si legge che c’è incompatibilità fra le esigenze e le modalità operative degli uffici di procura rispetto a quelle degli uffici giudicanti. Quanto al secondo quesito: perché si è deciso di integrare con una legge costituzionale dopo che per tanti anni si è parlato del problema e si sono prese anche iniziative legislative? La risposta è agevole: perché in Parlamento ora c’è una maggioranza ampia ancorché non sufficiente (vedi referendum) per far approvare la riforma.
Sullo sfondo si stagliano alcune situazioni diciamo imbarazzanti per la magistratura che seppur note sono state l’emersione plastica presso l’opinione pubblica e non solo per gli addetti ai lavori di profili di degrado e di malcostume. Perché le iniziative di riforma tentate con la legge ordinaria, anche con il consenso della magistratura (in funzione difensiva) si sono rivelate inadeguate. Il riferimento, tra le altre modifiche, è al sistema elettorale, ai passaggi di funzioni tra pm e giudici, esclusione della delibera a pacchetto, i criteri di verifica dei presupposti per gli incarichi direttivi e per la loro temporaneità, solo per citarne alcuni.
Tuttavia tutto ciò non è stato sufficiente, restando le implicazioni della comune appartenenza nell’organo di governo che non può non tener conto, oltre alle possibili patologie dell’attività consiliare, delle differenze strutturali che non consentono omologazioni e commistioni. Invero forte della cornice costituzionale del Consiglio Superiore della Magistratura non modificabile con legge ordinaria, la magistratura ha costruito nel tempo il suo potere dilatando le sue funzioni, complice una politica accondiscendente, ma anche con interpretazioni estensive di funzioni ampliando e sviluppando la sua compenetrazione nella vita pubblica e istituzionale. È evidente che questo ampio potere, come tutti i poteri, va ed è esercitato e, non dovendo essere ridimensionato, va difeso strenuamente.
Si spiega così la forte resistenza, addirittura la tenacia ostativa della magistratura associata. La necessaria riforma strutturale del Csm, l’uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri, è stata accompagnata da una modifica dei criteri di nomina dei componenti (pubblici ministeri e giudici) nonché dei criteri di nomina della componente politica e dall’introduzione di un’Alta Corte di disciplina. L’attenzione si è inevitabilmente prospettata rispetto al sorteggio e conseguentemente sulle dinamiche consiliari. A tale proposito allo stato possono soltanto prospettarsi alcuni possibili interrogativi sulle ricadute che sotto questi profili la disciplina potrà avere. Il discorso riguarda, oltre alle implicazioni della suddivisione dei due consigli, le ricadute della legge elettorale che prevede il sorteggio della componente togata.
Per la magistratura la riforma sottende il progetto di sottoposizione degli uffici di procura al potere politico (governo o ministro di Giustizia). Bisogna dire con onestà che si tratta di un pericolo agitato come detto in premessa, ma che non ha sinceramente fondamento. A parte le citate previsioni costituzionali, bisogna segnalare che un’operazione di questo tipo ancorché ipotizzabile sotto traccia, sarebbe viziata di illegittimità costituzionale facilmente ostacolata politicamente nel Paese, suscettibile di forti resistenze in sede europea come è successo per altri Stati. Se si ha l’onestà di guardare le vicende domestiche, non può non evidenziarsi soprattutto il ruolo che l’accusa ha esercitato nei confronti del legislatore, ostacolando le riforme non gradite (l’ultimo, il sequestro degli smartphone) e prima le modifiche all’utilizzabilità delle intercettazioni nei procedimenti separati (in contrasto con una decisione delle Sezioni Unite) impedendo le ricadute della contestazione dell’aggravante mafiosa per contrastare una sentenza della Cassazione ritenuta inadeguata a contrastare il fenomeno della criminalità.
Ma gli esempi potrebbero essere ancora più numerosi. Invero l’esposizione mediatica dei pubblici ministeri è sotto gli occhi di tutti e non si può non sottolineare la carriera “politica” degli ultimi procuratori nazionali antimafia. Il pericolo come si è detto è piuttosto l’opposto. Deve chiedersi se l’autonomo Csm dei pm non possa determinare un rafforzamento del ruolo del potere dell’accusa, in conseguenza di quello che è stato definito “l’ascensore istituzionale”. L’antidoto a questa evenienza è prefigurato dalla convinzione – forse dall’auspicio – che il giudice separato (tutti i giudici cioè la giurisdizione) recuperi il senso della propria funzione di garante delle regole e dei diritti evitando di confondere il suo ruolo con quello del pubblico ministero. In ogni caso va ribadito che questa non è la riforma del processo penale che dovrà rimodulare il rapporto tra indagine e dibattimento anche alla luce dell’appena citato riequilibrio fra giudici e pubblici ministeri.
Resta comunque da considerare che al di là della separazione dei due consigli superiori, la magistratura giudicante e quella requirente, resteranno unitari nell’Anm e che quindi per molti versi alcuni aspetti sottesi alla riforma dipenderanno dagli sviluppi che l’associazione nazionale magistrati e le sue componenti determineranno nelle dinamiche consiliari.