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A boat that is part of the Global Sumud Flotilla departs to Gaza to deliver aid amidst Israel's blockade on the Palestinian territory, in the Tunisian port of Bizerte, Saturday, Sept. 13, 2025. (AP Photo/Anis Mili) Associated Press / LaPresseù Only italy and spain
Un mese fa circa un migliaio di persone, tra cui alcune decine di italiani, hanno mollato gli ormeggi, si sono imbarcate su una cinquantina di velieri e hanno fatto rotta verso Gaza. Un gesto simbolico, certo: non l’illusione di liberare la città martoriata dall’assedio israeliano né quella di piegare i rapporti di forza, costringendo Israele alla pace.
La flotilla aveva un obiettivo più semplice e più assoluto: denunciare al mondo la “completa illegalità” di Israele attraverso la forza candida di un gesto che rivendica un principio. Missione compiuta: la flotilla è arrivata fin dove nessuno si era spinto, i militanti sono stati arrestati (illegalmente) dall’esercito israeliano e le piazze si sono riempite a Roma, Milano, Bologna, Napoli. Un successo, sì, ma solo sul piano simbolico. Gaza ringrazia, ma le bombe continuano a cadere.
E qui sta il nodo. Il movimento che si mobilita intorno al massacro palestinese sembra non avere approdo politico. È un’estetica della coscienza, nobile quanto si vuole, ma che non cambia di una virgola la vita di un solo gazawi. Né potrebbe. Ciò che manca è la traduzione, l’alchimia che porta il gesto a diventare prassi, che trasforma la bandiera in trattato, il principio in vincolo. Toccherebbe alla politica — la vecchia, sporca, odiata politica — prendersi quella responsabilità: portare la protesta nel regno del possibile.
Affermare un principio consola, ma non cambia i destini. Per fermare la strage servono politici e non (solo) capitani di vascello. Servono leader e partiti capaci di indirizzare, di dare seguito al moto di protesta, di trasformarlo in capitale che pesi davvero sulla vita (e sulla morte) dei gazawi.
E invece accade il contrario. La politica-politicante si aggrappa alla bandiera dei principi, applaude, si accoda alle piazze e così facendo si scrolla di dosso ogni responsabilità sulle decine di migliaia di morti.
La prova? Pasquale Tridico, candidato del centrosinistra in Calabria, annuncia che se eletto riconoscerà la Palestina. Prima di lui, Matteo Ricci nelle Marche aveva detto lo stesso: ha perso. Eroismo posticcio, radicalismo a costo zero. Le Regioni non riconoscono gli Stati, ma il titolo è fatto, il gesto simbolico consumato. È il trionfo di una politica che preferisce il racconto morale al governo della realtà, che si rifugia nel teatro dei simboli. Non la sanità calabrese, non il dissesto idrogeologico, non la fuga dei giovani: la Palestina.
Eppure, dall’altra parte dell’oceano, un personaggio improbabile come Donald Trump prepara un piano per la pace in Medio Oriente. Piaccia o no, quel piano ha un’ambizione sola: fermare il massacro. L’unica cosa che conta, qui e ora.
Ecco la differenza: da un lato il movimento delle coscienze, che ha una funzione alta ma limitata; dall’altro l’azzardo della prassi, la politica che si sporca le mani. I primi si muovono con dichiarazioni, gesti, testimonianze; i secondi sono sul tavolo del mondo reale. Ecco, da quel tavolo la sinistra si è alzata da tempo lasciando il mondo nelle mani della destra che lo governa a modo suo…