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EDMONDO BRUTI LIBERATI EX MAGISTRATO
“Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è grandemente esagerata”. Così Mark Twain in un telegramma all'Associated Press, dopo aver appreso che era stato pubblicato il suo necrologio. Si parva licet la stessa impressione mi ha destato il titolo “Ma è antico il no dell’Anm al diritto penale liberale” che Il Dubbio di ieri l’altro ha posto ad un contributo del prof. avv. Oliviero Mazza. Una volta tanto non si può dire che il titolista abbia forzato il contenuto dell’articolo. Non so se tutti gli oltre 200.000 avvocati italiani siano schierati e compatti dietro l’Unione delle Camere penali nel sostegno “senza se e senza ma” alla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario, di cui la separazione delle carriere è un aspetto, a mio avviso neppure il più rilevante. Ma in magistratura da sempre e su tutti i temi che riguardano la giustizia vi è un ampio dibattito e le posizioni sono così articolate, che si esprimono anche nella adesione all’una o all’altra delle “correnti”.
La storia della riforma del codice di procedura penale è una storia complessa, che ha visto avanzate e punti di arresto, questi ultimi essenzialmente per la resistenza di parti rilevanti delle forze parlamentari. Il dibattito è stato vivo nei partiti, nell’accademia, nella magistratura e nell’avvocatura. Fin all’ultimo l’entrata in vigore fu in forse, ma non è esatto che «la magistratura tentò in tutti i modi di bloccarne l’entrata in vigore con il pretesto, non certo inedito, della scarsità delle risorse». Vi erano in magistratura resistenze motivate da dubbi di efficacia nella repressione della criminalità organizzata e del terrorismo: resistenze guidate da molti, non tutti, i pm e i giudici istruttori che erano stati impegnati in quei settori. Una testimonianza di queste posizioni la troviamo in un corposo saggio pubblicato nella rivista Cristianità n. 197- 198 ( 1991) con il titolo “Denegata giustizia” nel paragrafo “Il nuovo processo: il miglior regalo alla malavita” ove si denuncia la «impossibilità con le nuove norme di perseguire la delinquenza organizzata».
Nel successivo paragrafo intitolato “Il pubblico ministero alle dipendenze dell’esecutivo” si considerano ineluttabili due conseguenze: «È più che ovvio domandarsi per quale motivo il pubblico ministero deve restare un magistrato, e non può essere, per esempio, un funzionario alle dipendenze del ministro degli Interni. Le indicazioni di priorità circa l’iniziativa penale, oggi di fatto provenienti dai capi degli uffici giudiziari, passerebbero di diritto nella competenza del potere esecutivo. Quest’ultimo potrà determinare non solo quali reati vanno perseguiti e quali no, ma pure in quali aree di illecito, e addirittura nei confronti di quali soggetti va esercitata la giurisdizione; con ciò ponendo fine sia alle garanzie di autonomia del pubblico ministero rispetto al potere politico, sia anche a quella dei magistrati giudicanti, le cui decisioni potranno riguardare solo quanto l’inquirente avrà loro sottoposto, una volta esercitata la propria discrezionalità». Reperto archeologico se non fosse che l’autore è un magistrato che, usufruendo delle cosiddette porte girevoli, ha fatto una certa carriera politica: Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
Resistenze importanti ma, all’esito di un vivace dibattito interno, l’Associazione nazionale magistrati, nella sua rappresentanza di vertice, prese posizione in favore della entrata in vigore del nuovo c. p. p.. Posso darne testimonianza diretta perché all’epoca in Anm ero segretario generale (presidente Raffaele Bertone). Altrettanto vivace il dibattito interno alla magistratura in occasione della proposta di riforma dell’articolo 111 Costituzione, ma tutti riconoscono il rilevante, se non decisivo contributo, di Salvatore Senese, allora senatore, magistrato con una rilevante storia nell’associazionismo giudiziario, essendo stato in precedenza segretario generale dell’Anm e di Magistratura democratica.
L’allora magistrato Mantovano riteneva ineluttabile con la separazione delle carriere la dipendenza dall’esecutivo del pm, ridotto al rango di funzionario. Nulla è ineluttabile, ma il rischio vi è, a dispetto delle rassicurazioni degli attuali legislatori costituzionali. Le persone passano, le norme, tanto più se di rango costituzionale, restano. In molti democratici Paesi che, in regime di separazione delle carriere, conoscono varie forme di collegamento con l’esecutivo del pm, finora questo intervento è stato esercitato con misura.
La realtà di oggi dall’Ungheria di Orban agli Stati Uniti di Trump alle varie pulsioni anche in Paesi europei verso una “democrazia autoritaria” ci mostrano come, in mancanza di solidi baluardi costituzionali, quel self restraint possa essere spazzato via in un attimo. Ecco perché non mi stanco di invitare coloro che di questa riforma costituzionale sostengono la separazione delle carriere a considerare ciò che non è appendice o poco rilevante contorno, ma il “piatto forte”: l’indebolimento se non la riduzione all’irrilevanza del Csm. È un modello che ha i suoi limiti, non è l’unico che gli ordinamenti democratici adottano per una garanzia forte dell'indipendenza della magistratura. Ma lo si riduce all’irrilevanza senza sostituirvi nulla. L’esperienza insegna che a nulla vale mantenere la formale proclamazione dell’indipendenza del terzo potere, senza istituti che ne garantiscano la effettività. Rigorosa tutela dell’indipendenza della magistratura è la base del diritto penale liberale e prima ancora di un ordinamento liberaldemocratico garante dei diritti delle persone.